Tornando a San Severo nel periodo natalizio ed entrando in casa, tra le prime cose sulle quali si ferma il mio sguardo c’è sempre qualche quadro o stampa di Andrea Pazienza. La nostra casa mi sembra abitata da lui, affollata dalle sue moltitudini, sin da tempo immemore. Una presenza silenziosa, discreta. Ad esempio, una fotografia che lo ritrae con gli occhi abbassati, sul punto di fare un tiro di sigaretta. O il profilo del cavaliere su quel cavallo magnifico – striato e muscoloso – e in lontananza il borgo piceno di Ripatransone.

Molti libri sul tema, tutti raccolti in un’apposita ala della libreria (chiusa a chiave, e dunque ritenuta preziosa): c’è l’intera sua produzione e ciò che è stato scritto sull’uomo e sull’opera. La prospettiva con cui si osserva il celebre fumettista da queste parti è quella di un “altro” Andrea, il ragazzotto che ha vissuto spensierato in questi luoghi. L’immagine di questo Andrea è rimasta intatta nella memoria degli amici di allora, i compagni di un’adolescenza frizzante nel Tavoliere.

Ci sono alcuni dettagli delle strisce di Pazienza che mi hanno sempre fatto molto ridere: tutto ciò che riguarda Pippo. Antologia psicotropa (Mondadori); Pippo che tuona con occhio allampanato e categorico «Quei films rincretineno i bimbi»; oppure: L’otto m’arzo, un jeu de mots degno di Joyce e del Finnegans Wake, con un signore sotto le coperte e il calendario che segna il 6; un altro sventurato che va a comprare il pesce ed è assalito da torme di gatti feroci e il poveretto, cercando di divincolarsi, grida «Zà!», monosillabo dialettale che probabilmente serviva a incitare il bestiame ed è utilizzato ancora oggi in momenti di fastidio, se non di pericolo, come quello accorso al personaggio di Andrea.

Ho ammirato il profilo uccelliforme di Zanardi, che – da quanto si apprende sul Corriere della Sera – appartiene al calciatore del Pescara Marco Misoni, conosciuto negli anni Settanta quando Pazienza frequentava il liceo artistico nella medesima città. Ma si potrebbe celare un’altra fisionomia dietro Zanardi, un giovane sanseverese, oggi docente universitario negli States, che gli tese un agguato in via Montenero con altri «pessimi ragazzi».

(Flickr)

L’agguato fu ricambiato alcuni pomeriggi dopo dagli amici fedelissimi di Pazienza e il naso adunco di Zanardi, in virtù di questa vicenda, campeggiò per anni dipinto sulle vetrate della mansarda di via Daunia. Ho ammirato la poesia che si nasconde non soltanto nella storia, ma persino nell’espressione «Verde matematico». Come può essere “matematico” un colore? C’è dietro un’alchimia dal sapore rimbaldiano.

Accostamenti arditi e intuizioni

Una cosa che, mi sembra, Andrea sapeva fare benissimo era quella che i latini chiamavano iunctura acris o callida iunctura, cioè un accostamento ardito, un mettere insieme elementi diversi ed eterogenei, i quali – grazie al potere dell’intuizione – riescono a stare in piedi perfettamente e creano qualcosa di nuovo. Forse è qui l’arte di Pazienza, forse per tale ragione è chiamato «genio», per questa sintesi mirabile di romanzo e scherzo, fumetto e feuilleton, epilessia linguistica e shock lirico-narrativo.

Stefano Cristante, nel suo libro Andrea Pazienza e l’arte del fuggiasco (Mimesis), mette in evidenza proprio l’energia romanzesca di Pazienza mescolata a echi intertestuali che denotano una cultura ampia (da Eliot a Esenin, da Penna a De André) e, soprattutto, il nitroglicerico impasto espressivo, che raggiunge vette di creatività – e di comicità – assolute: «Svarioni ortografici abnormi e pienamente consapevoli (“Io e la mia scuadra”), abbreviazioni forzate (“Ti deferirò al Trib. Pop.”), giochi di parole e rimestii in rima (“Su Cesera cala la sena”), dialettismi verosimili e non (“Chi m’ha fregato il pallùn!?”), anglismi improponibili (“Faiv minitz”)».

Benché molte città ne rivendichino l’alto patronato e sebbene un vero artista abiti il mondo, Andrea è anche un ragazzo di San Severo e le sue radici pittoriche provengono dal padre, Enrico Pazienza, acquerellista di livello. Ma nei suoi occhi, persino negli anni bolognesi, non scompare mai un mondo e un paesaggio che ha a che fare con le contrade pugliesi. Nella tumultuosa tempesta del 1977 a Bologna, ad esempio, per disegnare quelle tavole che poi, attraverso Oreste Del Buono, lo resero famoso, Andrea effettuò un rapido ritorno sul Gargano: le illustrò a San Menaio nella seconda casa di famiglia in una solitudine marzolina.

E poi cos’altro? Il ragazzo che a quindici anni disegnò il suo funerale in un quadro bruegeliano e apocalittico; il giocherellone che elaborava idee fumanti e rispondeva «Ta-da» nel linguaggio di Superpippo; il visionario che si aggirava per i viali del paese alla ricerca di belle fanciulle (quasi tutte cadute nella rete del suo irresistibile fascino); l’amico che architettava scherzi micidiali ma riusciva a dire «Frate’» con una dolcezza sconosciuta, proveniente da un altro mondo; l’autore di franate improvvise d’auto davanti alla stazione ferroviaria di San Severo, con grande sbattimento di sportelli e ragazzi in trench provvisti di mitragliatori di plastica che simulavano sparatorie tra le urla di ignari passanti.

Purezza interiore e irriverenza

Andrea era sanseverese nell’intimo. «Tenerezza gli faceva anche la ricorrenza del Santissimo Soccorso», è scritto in Il giovane Pazienza. Il disincanto degli anni inediti di Enrico Fraccacreta (Stampa Alternativa). Non mancava mai alla festa patronale. Andava in giro e chiedeva spiegazioni, poi le dava a noi. «Ho saputo che per vivere veramente il Soccorso, bisogna innanzitutto andare alle dieci nella piazzetta della cattedrale a veder uscire la Madonna... Stanotte l’ho sognata, volava sulle campagne».

Alle dieci i ragazzi si presentano sull’uscio della cattedrale e Andrea pare in visibilio. Chiede continuamente a un vecchietto il nome dei santi che escono dalla chiesa. «“Quello col cane chi è?” “Sand Ròcch” (San Rocco) “E quella con gli occhi nel piattino?” “Sanda Lucij” (Santa Lucia) “E quello con le frecce?” “Sand Sbastiène” (San Sebastiano)». Infine, esce la Madonna Nera del Soccorso: «Nel boato dell’applauso, sorridendo al bagliore del mattino. Noi restavamo immobili, ammutoliti. Solo Andrea una volta riuscì a mormorare: “È splendida, ne farò un quadro”». Cosa che puntualmente fece, con i pennarelli, nel 1987, un anno prima di andarsene.

Davvero è un Andrea inedito, smarcatosi per un attimo dall’etichetta facile e liquidatoria del poète maudit, dotato di una purezza, di una cristallinità interiore che lascia interdetti. Purezza, cristallinità che ancora oggi non si comprendono o si tengono debitamente a distanza, come aspetto marginale della sua personalità, quando esse sono forse la chiave per comprendere l’intero universo fumettistico da lui creato, nelle spine delle sue contraddizioni, nei motivi sottesi delle sue ironie, e particolarmente nelle grandi distese poetiche e nostalgiche di molte strisce.

Quando si rimane a lungo dinanzi a un suo quadro, sembra che non lì, non nelle incerte e sapienti pieghe delle sagome e dei colori, nelle smagliature delle nuvolette, nella firma roboante risieda il messaggio di Andrea, ma altrove, in un punto sfalsato e invisibile dell’opera, e quelle figure in presenza, quella freschezza e genuinità che esse emano, finanche quella inestirpabile irriverenza nei loro occhi, voglia dire qualcos’altro, qualcosa di cui soltanto Andrea, nella lotta del suo cuore, aveva chiara e statuaria nel pensiero.

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