Dal giacimento profondo delle opere del premio Nobel jugoslavo Ivo Andrić, Crocetti editore ha estratto dei Racconti di Sarajevo (142 pagine, 16 euro), alcuni già tradotti (Newton 1993), altri inediti in italiano, tutti scelti secondo il criterio esplicito di usare il grande scrittore per alludere al presente. Leggi Sarajevo e pensi Kiev non solo per la macro storia di sfondo sovrapponibile seppur i paragoni sono sempre zoppi, ma soprattutto perché sono i sentimenti umani che non conoscono i mutamenti del tempo e si ripetono uguali a se stessi nelle situazioni emergenziali.

Sarajevo è la città di incontro di mondi, e dunque di frattura, nel fianco sud-est del continente. Kiev, lo stesso a nord-est. Lembi estremi del fu Impero austroungarico che hanno subìto conflitti, devastazioni, invasioni e cambi di regime. Andrić usa proprio i periodi a cavallo di due epoche, sia il 1878 con l’avvento dell’amministrazione viennese a sostituire quella ottomana, sia la Seconda guerra mondiale con l’occupazione ustascia-nazifascista, per misurare il loro impatto sulla gente comune, lontana dai palazzi del potere, che si arrabatta per sopravviversi.

Come nel migliore dei racconti, l’ultimo del libro, Buffet Titanic, dal nome del locale di Mento Papo, un ebreo poco incline a seguire i dettami religiosi, un uomo che conduce una vita disordinata, tra alcol, gioco d’azzardo e un legame complicato con la compagna Agata, croata cattolica. Tanto da fare bisboccia con i buontemponi gaudenti di ogni bettola ma da essere ostracizzato dai membri della sua comunità. Non un problema per la sua assoluta noncuranza rispetto all’appartenenza, in un luogo dove si era realizzata l’unione degli slavi del sud.

E potrebbe continuare così se la storia non facesse un capitombolo impronosticato da chi lo dovrà subire nonostante la figura di Hitler già si stendesse come un’ombra nera sull’intero continente: noi umani siamo restii a immaginare il peggio per noi stessi e propensi a sottovalutare gli indizi che si accumulano. Così gli amici di Mento Papo: «Un ebreo vero non sei, e non sei neppure un cristiano». Come se l’autocertificazione di essere “niente”, di non avere un’identità definita, potesse essere un salvacondotto.

Ma ecco che arriva l’autorità ustascia vogliosa di dimostrare agli alleati nazisti lo stesso zelo nel rastrellare e deportare ebrei, proprio nella città delle due sinagoghe, una sefardita e l’altra askenazita, che ha dato ospitalità a due tribù della diaspora una proveniente dalla Spagna e l’altra dal nord. La vita di Mento Papo deraglia tra la fuga di Agata con la cassa, il suo dispiacere per non avere denaro così da poter corrompere i possibili aguzzini e la genetica che lo incatena a un destino.

L’ustascia incaricato di perseguitarlo è un uomo diversamente poveraccio che ha fallito in tutto ciò che ha intrapreso e che ha visto una possibilità di riscatto indossando la divisa dei provvisori padroni. Ma non è l’abito che fa il monaco e Stjepan Kovic, questo il suo nome, non ha l’indole dell’assassino, è deriso dai suoi commilitoni per l’incapacità di sopraffare i candidati al macello. Al cospetto di Mento Papo si trova a disagio esattamente come la sua vittima. La somma delle due paure produce un epilogo sorprendente e tragico.

Pessimismo dominante

È il pessimismo che domina le pagine. Ivo Andrić di tutta evidenza non crede che la storia sia maestra e si possa imparare dagli errori del passato. Un fatalismo che incatena la stragrande maggioranza degli umani costretti a subire decisioni prese chissà dove dai pochi potenti e che si ripete uguale a se stesso a qualunque latitudine.

Un’attitudine genetica alla violenza così spiegata: «Chiuso e imprigionato (nel corpo delle persone ndr) il sangue si ribella e si agita, e battendo contro le pareti dei vasi sanguigni cerca una via d’uscita, nel desiderio di prorompere alla luce del sole e di scorrere di nuovo liberamente come un tempo. Ed è questo che incalza gli animali ad assalirsi a vicenda, che muove l’uomo e non gli permette di vivere in pace né di lasciare in pace gli altri, ma lo spinge a versare il sangue, ora quello altrui, ora il proprio».

Ci sarebbe la bellezza, capace secondo Dostoevskij di salvare il mondo. Non per Andrić. La bellezza personificata nel racconto I sellai da Stanka, «una ragazza snella e forte, dalla vita stretta, con il viso innocente e dolce di una bionda bellezza».

Cammina per strada sempre accompagnata da una donna anziana o da un bambino, inseguita dai sospiri e dai commenti dei passanti e... «peccato sia di quell’altra fede», «ma quando la vedo così io dimentico anche di che fede sono», «hai ragione, chi vuoi che pensi alla sua fede?». Un impulso genuino subito soffocato dalla convenienza perché il soggetto del desiderio è «di quell’altra fede» e nei tempi tristi non sono accettate le contaminazioni, ciascuno crede di avere protezione solo stando stretto nei precetti della propria tribù.

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