Qualche giorno fa ho pubblicato su questo giornale (Domani 12 ottobre) un articolo a proposito del discusso progetto di far terminare con una e rovesciata (ə; quello che i linguisti chiamano schwa) tutte le parole maschili usate per designare dire “maschi e femmine” (tipo cittadinə, elettorə, ragazzə ecc.). Mi sono accorto in quell’occasione che il tema non è caldo, ma è scottante: accanto a centinaia di espressioni di approvazione (del mio invito alla prudenza), altrettante di deplorazione e accuse, anche frementi e sanguinose (sessista, razzista, reazionario, ecc...).

Voglio tornarci sopra e disegnare una proposta fantastica di soluzione. Nel mio articolo sostenevo che l’intento della proposta è ragionevole: neutralizzare le differenze morfologiche di genere che le lingue conservano da tempo immemorabile. Ma lo stratagemma suggerito è infondato e impraticabile. Per diversi motivi. Anzitutto, in italiano i segno ə è impronunciabile, e quindi dà luogo a qualcosa di linguisticamente assurdo: parole che si scrivono ma non si pronunciano (come europeə). Se volessimo leggerlo, cioè pronunciarlo, l’italiano (come ho scritto la volta precedente) suonerebbe come il dialetto napoletano, il barese o un qualche dialetto abruzzese.

In secondo luogo, non sembra che il solo segno ə basti a eliminare l’elemento maschile nel vocabolario e nella grammatica italiana: moltissimi dettagli importanti della lingua non si prestano al ritocco. Che ne sarebbe degli articoli? Al singolare, cosa diventa il? E la? Al plurale, se scrivessimo glə (fusione di i, gli e le) ci sarebbe pur sempre una traccia di maschile (le lettere g e l); scrivendo ci sarebbe una traccia di femminile. Siamo disposti a scrivere allora ə ragazzə? E che fine fanno le parole in cui a distinguere maschile e femminile non è solo una vocale (come ragazz-o/a)? Parlo di parole come student-e/essa: la forma con schwa sarà studentə o studentessə? Nella prima, comunque vogliate pronunciarla, si vedrà sempre un maschile adulterato.

L’informazione è in fondo

Bisogna farsi allora una domanda più sostanziale, un pochino più impegnativa. Perché in italiano (e in francese) queste modifiche, oltre che produrre parole impronunciabili, non riescono neanche a coprirle tutte e a fare finalmente piazza pulita del predominio del maschile morfologico? Le modifiche egalitarie non possono funzionare per un motivo profondo: l’italiano è una delle tante lingue che affidano la maggior parte della loro informazione grammaticale ai suffissi, cioè alla parte finale delle parole variabili. Le flessioni del verbo (tutte), le declinazioni di nomi, aggettivi e pronomi sono costituite solo da suffissi. Certo, in italiano (come in francese e nelle lingue sorelle) ci sono anche prefissi, ma il loro ruolo grammaticale è meno importante.

La colpa del pasticcio è quindi – si potrebbe dire – dei suffissi! Una soluzione del problema sarebbe più a portata di mano se per ipotesi spostassimo l’informazione grammaticale nei prefissi, cioè in quegli elementi che si saldano prima della radice: pre-vedere, ri-formare, post-datare, ecc. Ci sono lingue nel mondo che funzionano proprio così. Per questo voglio proporre un esperimento leggermente distopico: per avere qualche risultato plausibile l’italiano dovrebbe funzionare come certe lingue africane.

In questo accostamento non c’è nulla di strano. Negli anni Cinquanta del secolo scorso, un grande scrittore surrealista come Raymond Queneau scrisse un breve saggio intitolato Il francese, lingua esotica?, in cui suggeriva una curiosa ma illuminante analogia. Sosteneva infatti che il francese, col passare del tempo, fosse diventato come il chinook, lingua pidgin usata dai commercianti americani della costa pacifica.

La struttura di questa lingua (e, secondo Queneau, del francese parlato moderno) permette di creare frasi divise in due blocchi distinti: da una parte le parole “piene” (i nomi), dall’altra quelle “vuote” (i pronomi) attorno al verbo. Quindi il francese parlato (quello di cui è pieno uno dei capolavori di Queneau, Zazie nel metrò) permette frasi come: le livre mon père a ton oncle, // il ne le lui donnera pas (più o meno il libro mio padre a tuo zio // lui non glielo darà).

Forti di questo precedente, proviamo a immaginare che l’italiano sia come lo swahili, estesamente parlato in Africa orientale e meridionale (Tanzania, Uganda, Rwanda, Kenya, Mozambico, Congo, ecc.), che ha una caratteristica importante: numerose informazioni vengono date mediante prefissi. Alcuni di questi contrassegnano entità affini: per esempio, m- marca esseri umani singoli (m-toto, bambino), wa- esseri umani molteplici (wa-toto, bambini), ma- indica il plurale di una determinata classe di nomi: sikio, automobile, ma-sikio, automobili; neno, parola, ma-neno, parole. Il sistema dei prefissi swahili è molto ricco e non posso illustrarlo qui. I pochi esempi che ho dato bastano però a rendere l’idea.

Le lingue reagiscono

Le discriminazioni di genere che l’italiano (come le lingue romanze e tante altre) registra sarebbero cancellate in tronco se la nostra lingua attribuisse ai prefissi un maggiore carico informativo, scaricando i suffissi.

Faccio esempi fantasiosi, ma non insensati: un’entità maschile potrebbe essere segnalata dal prefisso ma-: ma-studente, ma-scrittore, ma-elettore. Una femminile dal prefisso fe-: fe-studente, ecc. L’insieme degli uni e degli altri sarebbe segnalato da tu-: tu-studente (studenti maschi e femmine), tu-scrittore, ecc. Gli aggettivi potrebbero seguire lo stesso schema, come in swahili (tu-molti tu-bravi tu-studenti) oppure restare invariati. Una riforma di questo genere avrebbe il vantaggio di essere sistematica (a differenza di quella basata sullo schwa, che colpisce solo una piccola classe di parole) e, soprattutto, di produrre parole pronunciabili. Le cose funzionerebbero ancor meglio se nomi e aggettivi perdessero del tutto le marche di maschile/femminile e diventassero un po’ come quelli inglesi: se avessimo, cioè, student, scrittor, genitor, ecc.

A questo punto, la vena distopica della mia modesta proposta è scoperta e mi arresto. La morale di questa favoletta è che le lingue non si lasciano rimodellare, neanche solo graficamente, senza reagire e senza opporsi, soprattutto quando le modifiche che pretendiamo di apportarvi ne alterano i meccanismi più profondi e caratteristici.

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