In una surreale versione degli Stati Uniti del prossimo futuro dove il sistema carcerario è totalmente privatizzato, Catene di gloria dello scrittore americano Nana Kwame Adjei-Brenyah, tradotto da Dario Diofebi e Martina Testa per Sur, finalista all'ultimo National Book Award, è un format televisivo di enorme successo: i detenuti e le detenute, invece di scontare la pena, possono decidere di sfidarsi a morte in un grande torneo di gladiatori (con annesso reality show), guadagnandosi duello dopo duello la libertà. Nessuno è mai arrivato al traguardo, ma Loretta Thurwar, guerriera formidabile e superstar del programma, è a un passo dal riuscirci. Solo che, per lei e per la donna che ama – un’altra sanguinaria gladiatrice – di colpo le regole del gioco stanno per cambiare…

Catene di gloria si legge al tempo stesso come uno scatenato romanzo d’azione pieno di personaggi memorabili, e come una denuncia politica contro l’industria carceraria e quella dell’entertainment. È un romanzo figlio del postmodernismo, della tradizione afroamericana, della cultura dei videogiochi, della televisione sportiva; ma soprattutto intriso di quel sentimento di protesta radicale e immaginifico che ha animato la migliore controcultura americana.

Nana Kwame Adjei-Brenyah è nato a Spring Valley, nel nord dello stato di New York, da immigrati di origine ghanese. È stato allievo di George Saunders all’Università di Syracuse, dove oggi insegna a sua volta scrittura creativa. Nel 2018 è stato selezionato da Colson Whitehead come uno dei «5 Under 35», il riconoscimento con cui la National Book Foundation segnala i 5 migliori esordienti statunitensi sotto i 35 anni.

Come mai ha scelto di scrivere un romanzo che parlasse del sistema carcerario? Come si fa a scrivere di carcere per un pubblico che ha consumato innumerevoli prodotti culturali su persone detenute, o che cercano di evadere dalla detenzione, ma non ha mai fatto esperienza diretta del carcere e vive perlopiù come se nel mondo reale non esistessero milioni di detenuti in carne e ossa? Sembra un’impresa molto coraggiosa, c’è riuscito brillantemente.

Direi che mi interessano i sistemi e i contesti che ci portano a prevaricare gli uni sugli altri. Il primo personaggio con cui ho sentito crearsi una connessione è stato quello di Thurwar: sapevo che partecipava a un qualche gioco brutale ma non avevo ancora chiara l’idea che fosse una detenuta, un essere umano inserito in quello specifico sistema. Sapevo che era spesso sotto gli occhi di moltissime persone, e che la sua vita era in bilico. Pensando a cosa potesse rendere accettabile al pubblico questa condizione, quasi subito sono arrivato al sistema carcerario. Vale a dire: se i carcerati subiscono abusi, non ce ne importa nulla. E appena ho cominciato a fare ricerche sul tema, ho sentito con forza che era qualcosa che volevo raccontare.

I suoi protagonisti, i Forzati, non sono figure con cui i lettori si possono identificare facilmente: sono assassini e celebrità al tempo stesso. Hanno un che di mitologico – ricordano i personaggi dell’epica o della tragedia greca – e ci costringono ad affrontare enormi dilemmi morali. Molta narrativa “letteraria” contemporanea si basa su personaggi con cui è facile immedesimarsi, alter ego dell’autore, persone che, ci sembra, potremmo conoscere nella vita di tutti i giorni. La dimensione epica viene lasciata soprattutto alla letteratura “di genere”. Perché ha deciso di andare in questa direzione?

Volevo dimostrare, credo, che chi viene percepito come un personaggio straordinario, “fuori scala”, in realtà non lo è davvero. Le persone sono semplicemente persone, che si parli di me, di te o di Beyoncé. In generale, una delle nostre tendenze disumanizzanti è quella a sminuire o esaltare qualcuno basandoci su una percezione esteriore del suo status. Il mio romanzo prova a scardinare questa dinamica, creando personaggi che occupano al tempo stesso una posizione di infamia e di celebrità. Sono contemporaneamente esseri superiori e inferiori, e questo ci costringe a ricordarci che lo stesso vale per tutti noi. Tutti noi siamo semplicemente persone. Figure epiche e meschine e tutte le gradazioni che ci sono in mezzo.

Molti dei suoi personaggi compiono gesti di eroica insubordinazione che gli costano la carriera, o enorme dolore fisico (o entrambe le cose); alcuni di questi gesti finiscono per ispirare un’azione politica collettiva, altri no. Lei crede nel sacrificio personale contro l’ingiustizia sociale e politica? È un’idea che suona (felicemente) anacronistica in un’epoca in cui, malgrado tutte le energie che i singoli individui investono nella cura di sé, nell’autopromozione, nell’autodefinizione, ciascuno di noi sembra tutto sommato impotente rispetto al turbocapitalismo, alle forme sistemiche di disuguaglianza, al grande quadro geopolitico. 

Sì, credo assolutamente nel sacrificio personale, almeno di qualche tipo, nell’ottica del cambiamento sociale. Penso che sia insito in qualunque progetto di cambiamento, perché la nostra attuale situazione socio-politica dipende in parte dal fatto che desideriamo stare comodi e a nostro agio. Di solito è questo che ci trattiene dall’impegnarci. E il rischio di perdere quella comodità è anche ciò che ci tappa la bocca.

Ci sono pagine del suo romanzo che spezzano il cuore, ma è anche una storia d’azione dal ritmo incalzante, e un esempio brillante di costruzione di un mondo: ci sono stati momenti in cui si è divertito a scriverlo? E se sì, quali sono state le fasi divertenti del processo?

Spesso mi diverto a scrivere. Non sempre. A volte è doloroso. Cerco di godermi al massimo la scrittura di frasi impegnative, precise. Per me quella può essere una grande gioia. In quest’ottica, mi sono divertito per tutto il corso del libro. Ma forse quelli che mi è piaciuto di più scrivere sono stati i capitoli dal punto di vista di Hendrix Young, lo «Scorpion Singer».

Che rapporto ha con gli Stati Uniti? Se sei nato in Italia da genitori ghanesi, non sei un cittadino italiano fino al compimento dei 18 anni (e anche allora, devi fare domanda per diventarlo): lei si è sempre sentito un cittadino degli Stati Uniti? È in qualche modo “orgoglioso” di esserlo? In quanto immigrato afroamericano di seconda generazione, crede che il rapporto con il suo paese sia diverso rispetto agli afroamericani le cui famiglie vivono negli Stati Uniti da generazioni, e i cui antenati sono stati schiavi nelle piantagioni?

Credo senz’altro che il fatto di aver avuto dei genitori immigrati abbia contribuito a formare la mia percezione della realtà. So che gli Stati Uniti d’America non sono il centro del mondo. Non dico che chi ha molte generazioni di antenati in America creda necessariamente questo, dico solo che a me veniva espressamente ricordato che i miei genitori non erano americani come me, e per loro questa era una cosa buona. Gli Stati Uniti sono il paese che conosco e da dove provengo. Sono orgoglioso a livello più locale del posto dove sono nato e delle persone originarie delle città in cui ho vissuto. Mi viene molto difficile provare un senso di orgoglio più generalizzato, quando al momento il mio paese sta dando appoggio e sostegno a un genocidio nella Striscia di Gaza.

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