Lo raccontava Giorgio Gaber, a proposito di quegli amici che quasi tutte le sere della settimana lo invitavano ad andare al teatro o al cinema, a vedere questo o quel capolavoro. Lui era pigro, scettico, ma quelli gli dicevano: «Eh no, caro, quello lì non lo puoi proprio perdere».

Allora lui ci andava e appena scendeva il buio nella sala, con gli occhi puntati al palco o allo schermo, Gaber pensava immediatamente che avrebbe desiderato essere altrove, «a casa ammalato, alle corse dei cani, al pronto soccorso, al planetario, dal dentista», ovunque ma non su quella poltroncina. E invece era lì, seduto scomodo, e senza neanche la possibilità di fumarsi una sigaretta.

Eppure, nonostante la noia, nonostante il fastidio, aveva fatto bene ad andare a vedere quel kolossal con Kevin Costner e gli indiani o la Wertmuller; aveva fatto bene perché «bisogna saperlo quanto si soffre, bisogna ricordarselo, perché così tutte le volte che non ci vai, godi». Di tanto in tanto è necessario rinverdire la memoria.

Giorgio Gaber lo raccontava nel brano Cosa mi sono perso dello spettacolo che portò in scena tra il 1984 e il 1985. Diceva che «non si gode mai abbastanza di quello che si perde, mai». Se invece si mantiene fresco il ricordo della ricerca del parcheggio, della coda al botteghino, delle scempiaggini viste o ascoltate, allora si finirà per godersi pienamente una serata trascorsa a casa mentre gli altri sono in fila ad applaudire l’irrinunciabile talento artistico di questo o quel venerato maestro. «Domani sera mi perdo l’Otello. Sono già tutto eccitato. Carmelo Bene me lo perdo martedì. No, martedì c’è un film stupendo di Coppola, ormai devo perdermi quello lì, l’ho fissato. Quando ci sono due capolavori insieme è un po’ un casino. E c’è anche il concerto di Baglioni. E Baglioni quando me lo perdo? Sabato sono impegnato, non vado al dibattito sul problema dei rifiuti o a quello sul nucleare, e anche lì me la godo».

Purificarsi

Io mi perderei volentieri l’estate, quest’anno come ogni altro anno, e sì che mi sentirei purificato a settembre. Mantengo ancora il ricordo di qualche estate passata e così mi compiaccio di vivere una stagione senza tutte quelle specifiche convenzioni. Non si capisce poi perché la chiamino la bella stagione.

È invece la stagione più spinosa di tutte. Le sue condizioni atmosferiche rendono più difficile intenerirsi con sincerità e più facile blandire malevolmente il prossimo. Mi perderò la coda in autostrada, con gioia.

Mi perderò la salsedine, ad agosto. Non lascerò la mia impronta nella sabbia dell’estate. Non andrò a visitare città d’arte o borghi incantati. Mi voglio perdere, come suggeriva Gaber, con tutta la consapevolezza di cui sono capace, la frivolezza crudele del periodo estivo. Dopo l’infanzia persino la noia è inutile d’estate. «La noia dell’ostrica produce perle» sentenziava Josè Bergamin, poeta, saggista, teatrale, teologo e polemista spagnolo: in estate, ne sono certo, neanche l’ostrica si annoia in un modo vantaggioso.

Me le perdo gran volentieri, scandendole con gaudio una a una, le gioie funeste dell’estate italiana: la lista delle cose da fare se resti l’ultimo essere umano in città; i trekking sulle vette in compagnia di sconosciuti; la ginnastica sul bagnasciuga. E mi lascio sfuggire con felicità seriamente appagante la Settimana Enigmistica sulla sdraio, i romanzi in edicola, la cimiteriale programmazione televisiva di repliche. E le zanzare, che come le definiva Alessandra Lavagnino in un devotissimo libricino a loro dedicato sono «esseri liberi, piccoli, volatori, che vengono a suggere il nostro sangue prelevandolo direttamente dai capillari e lo fanno di notte mentre noi dormiamo, o alla luce del giorno in aggressione rapidissima». Peggio della crema solare c’è soltanto la panache, quella combinazione meschina di birra e gassosa. Il torto dell’estate è che esige capricciosità e leggerezza, ma in cambio, appunto, dà solo insolazioni e pomfi di zanzara.

«L’inferno sono gli altri» – si dovrebbe dire allungando la citazione di Jean Paul Sartre – durante i mesi estivi.

L’estate è un trucco, l’estate è un imbroglio: come anche nelle altre stagioni, tra giugno e agosto ci si produce in azioni per abitudine, inerzia o calcolo, dalle ferie programmate alla routine vacanziera, ma a differenza di quanto non accada in primavera o in inverno, in estate di solito si ritiene di vivere più liberamente, senza capi o orologi. È sorprendentemente curioso come tutti credano di fare di testa propria durante i mesi estivi.

La tecnica proposta da Gaber è molto più gratificante di quanto non sarebbe limitarsi a non andare al cinema o a teatro a vedere quel film o quella pièce tanto consigliata dai giornali e dagli amici più avveduti.

Fare altro

Tu pensa, sosteneva infatti Gaber, quanto può essere piacevole una sera far tutt’altro, ricordandoti che nel frattempo non sei a teatro a vedere Ronconi. «Otto ore di godimento, senza intervallo», scherzava. Me lo devo dire anche io tutti i giorni dal solstizio di giugno all’equinozio di settembre, me lo devo ricordare ogni sera di questi novantadue giorni che già sotto l’insegna dell’etimologia sono quelli del gran caldo (aestas in latino era il calore bruciante), me lo devo ripetere sempre, per vivere così appieno la soddisfazione che non sono in spiaggia a bere una panache, che non sto chiedendo a un autoctono di indicarmi una ristorante in cui si mangi bene il pesce, che non sto facendo la coda a un casello autostradale, che non sono in cammino verso un rifugio montano in scia a una guida taciturna e che, addirittura simultaneamente, non mi trovo in balia di un tassista indecentemente logorroico. È impagabile, in effetti, se ci si mette d’impegno, gustare la contemporaneità di due o più appuntamenti estivi ai quali si può disattendere in un sol colpo.

«E Lavia?» Si chiedeva Gaber. «Io quando non vedo Lavia mi sento più buono, non so, come purificato». Allo stesso modo io mi domando: «E le passeggiate sul lungomare?», «E il pranzo di Ferragosto?». In mancanza di qualunque di queste cose, tutte tipicamente estive, mi sento più sereno, meno disposto all’ansia e per nulla propenso alla collera. E ancora il solito Gaber: «Tu pensa, sono trent’anni che mi perdo La locandiera. È come aver smesso di fumare». Vorrei potere dire altrettanto io; vorrei tanto poter affermare che sono trent’anni che mi perdo l’estate, ma qualche volta di troppo mi è capitato di viverla, non sempre sono riuscito a fuggirle come invece avrei voluto. Eppure d’estate mi accorgo di tenere alla vita più di quanto a volte nel corso del resto dell’anno sia disposto a credere. Se accetto il caldo, le gallerie in restauro, le impalcature sui palazzi storici, le facciate posticce dei musei, se accetto il treno che si ferma in mezzo alla campagna e non riparte più, le domeniche in balia né del campionato di calcio né di un pigrizia felina, ma di un’indaffarata svogliatezza, se accetto tutte quelle sciagure evocate in precedenza, allora è perché voglio vivere. A ciascuno la propria stagione, insomma. La mia è l’autunno, con il primo ingiallirsi delle fronde degli alberi. O forse è la primavera, potersi mettere una giacca invece che il cappotto. O magari è l’inverno, persino con il Natale. Quel che mi sento certo di affermare, però, è che la mia stagione non è l’estate. Bruno Martino nel 1960 cantava Estate: «Sei calda come i baci che ho perduto, sei piena di un amore che è passato e il cuore mio vorrebbe cancellar, Odio l’estate, il sole che ogni giorno ci scaldava, che splendidi tramonti dipingevi». E infine, benaugurante, prediceva un mondo migliore: «Tornerà un altro inverno, cadranno mille petali di rose, la neve coprirà tutte le cose e forse un po’ di pace tornerà». Se saremo ancora qua, se nel frattempo avremmo saputo farci scivolare addosso l’estate che ancora manca, meriteremo senza dubbio di goderci la neve e la pace.

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