Mi appoggiai indietro sul sedile, attenta a non sfiorare i braccioli con la piccola sezione nuda degli avambracci. Quel contatto è capace di darmi i brividi, per fortuna so come evitarlo. Fuori, un glorioso giorno d’estate. Sarebbe stato bello passarlo in qualsiasi altro posto che non fosse il treno. Essere in treno è come non essere da nessuna parte, dov’ero io? Mi imposi di smetterla prima dell’attacco di panico. Per fortuna so evitare anche quelli, o comunque nessuno si è mai accorto di niente.

Occhi sulle case oltre il finestrino, è molto importante concentrarsi su qualcosa, distrarre l’attenzione dall’angoscia, guardare guardare guardare, trova qualcosa da guardare, altrimenti iniziano a spuntare le minacce dentro la testa, e non ne esci più. Guarda le case: cosa c’è dietro quei vetri, chi le abita? Che voci faranno vibrare le foglie del salice in quel giardino? Sarebbe stato bello sedersi lì sotto, all’ombra, con un bicchiere di tamarindo. E invece. I campi scorrevano, la casa del salice non si vedeva più. Una galleria, e nel vetro la mia blusa di seta color senape, un colore che mi sta da cani, mi fa sembrare tutta gialla, infatti la metto solo per viaggiare. Adoro essere repellente quando viaggio, mi aiuta a mimetizzarmi, scoraggia gli approcci; perché mi ci mancano solo i chiacchieroni, quando sono lì a combattere con il panico e tutto l’ambaradan.

Ecco una villetta, con una piccola piscina gonfiabile davanti alla porta pitturata di verde. Sotto una pergola stava seduto qualcuno, che non ero io: io ero in treno e dovevo stare molto attenta perché il mio vicino era chiaramente un seccatore. Con la coda dell’occhio l’avevo già scoperto: affamato di conversazioni ferroviarie, aspettava il momento giusto per attaccare bottone, come un piccolo rapace – piccolo, poi, mica tanto. Era un omone rubizzo, con pochi capelli e unti a fargli da corona sulla sommità della testa. Naturalmente, come amano fare i veri scocciatori – decisi a fiutare nell’aria la possibilità di intavolare dialoghi non richiesti e non voluti con la vittima prescelta, infischiandosene delle norme igienico-sanitarie vigenti – teneva il naso, e che naso!, una proboscide bitorzoluta, una specie di gigantesco rubinetto paonazzo, fuori dalla mascherina, esposto agli sguardi di un mondo che, per quel che potevo giudicare io, sarebbe stato grato di non dover guardare. A lui, era chiaro, non importava.

Si schiarì la voce e io trattenni il respiro. Cosa mi avrebbe chiesto? Se avevamo accumulato ritardo, e quanto; è sempre un espediente molto gettonato. O dove fossi diretta. Non importava l’esca: una banalità qualsiasi, anche desolante, se la sarebbe fatta bastare. Lo sapevo, li conosco quelli della sua specie. Si accontentano dei pretesti più esili e ci si appiccicano, ragni penzolanti dalla tela appena ordita, e tu sei la mosca, non hai scampo. Che fastidio!

I crampi

A pensarci bene, se ero così nervosa, così irritabile e incattivita, una ragione ci doveva pur essere. Come nel più bieco degli stereotipi – sei nervosa? Non è che… Era. L’alfabeto Morse dei crampi che mi strizzavano la pancia a intervalli sempre più brevi confortava i miei sospetti, sconfortando me. Mi alzai per andare in bagno. Il tizio mi fece un segno, quasi un inchino. Ma cosa voleva?

Io non ne posso più dei seccatori da treno, quando sono stanca, quando mi stanno venendo le mestruazioni, quando ho voglia di stare sola. Una volta un tizio mi fece scivolare un bigliettino sul sedile, una cosa patetica, da film erotico di quarta categoria – per chi mi aveva presa? Forse voleva solo essere galante, io non dissi una parola e rimasi lì a guardarlo male, finché dopo un po’ ha preso, si è alzato, ed è sceso dal treno, lui con la sua faccia da lumacone. Io sono rimasta lì a pensare, e devo dire con una certa soddisfazione, che fosse sceso per imbarazzo, a una fermata che non era la sua, e mi compiacevo di immaginarlo in mezzo alla campagna, piantato nel nulla come un allocco. Probabilmente invece era solo arrivato alla sua stazione e mentre io gongolavo sul sedile convinta di aver fatto chissà che, lui era tornato da sua moglie e dai suoi figli, che schifo!

Che schifo questi uomini, penso, e ho un nuovo crampo, devo proprio andare in bagno e intanto il tizio paonazzo si è alzato come per aiutarmi, mi sfiora una mano con le sue manacce tutte arrossate da non so quale sfogo epidermico, ma come si permette? Mi scanso, lo scanso, sibilo che non ho bisogno di niente, lui farfuglia qualcosa di vago, che voleva solo aiutarmi, ma, dico io, chi gliel’ha chiesto? Questo però lo penso soltanto, non lo dico ad alta voce, sono già quasi arrivata al bagno. Penso che quel tizio sia rivoltante. Non ho altre parole, per questi che pensano di poterti prendere tempo, e attenzioni, come fosse un loro diritto, come se tu non aspettassi altro, come se fosse una cosa normale.

Inclinazione alla pietà

Il bagno è occupato, mi fermo davanti alla porta, che scocciatura. Per fortuna ho sempre un Oki in borsa, lo prendo senz’acqua, lascio sciogliere la polverina sotto la lingua, ho la sensazione di stare subito meglio, naturalmente è l’effetto placebo, lo so anch’io. Penso alla mano di quel tizio, che orrore… però, poveraccio. Non è mica colpa sua se ha quell’orribile eczema, chissà come gli è venuto? Magari è solo molto stressato. Oh no, oh no, oh no, è successo di nuovo. La mia stupida inclinazione alla pietà, alla compassione, alla pena, a come volete chiamarla? Empatia. Come sarei io, se fossi al posto di quel vecchiaccio? Certo non importunerei le ragazze – ma davvero? Siamo proprio sicuri? No, perché magari le importunerei esattamente come lui. Con quel fare viscido, con identica prepotenza. E se fosse tutta una richiesta di aiuto, di attenzione, la sua?

Non so se l’ho letta da qualche parte o me la sono solo immaginata, la storia di un tizio che approccia una ragazza sul treno, lei lo tratta male e nel giro di pochissimo quello si butta giù dal treno o fa qualcos’altro, comunque, di sconsiderato. Ora, forse sto ingigantendo tutto, mi sto dando troppa importanza, certo… e se invece fosse proprio così, se fosse quella la chiave di lettura? Un grido disperato di aiuto, un uomo solo ha pensato che lo potessi aiutare, ha pensato che gli avrei teso una mano, metaforicamente, beninteso, e io l’ho umiliato al punto di spingerlo a farla finita, un’altra spintarella impercettibile sull’orlo di un baratro su cui danzava già da un po’, e tac, ha perso l’equilibrio ed è cascato a testa in giù nell’abisso, nel suo abisso, che ora però sarebbe anche il mio.

Ma non è troppo tardi, la porta del bagno si è aperta, mi sistemo in un attimo, per fortuna non sono una di quelle sprovvedute che girano senza assorbenti in borsa, io sono sempre pronta a tutto – a tutto? A tutto, tranne alla disperazione degli sconosciuti sul treno.

Adesso però torno al mio posto, farò un sorriso e si appianerà tutto, cosa mi costa, in fondo? Niente, proprio niente, e finalmente non mi dovrò più sentire così in colpa, così responsabile… odio sentirmi responsabile! Cammino bene attenta a non sfiorare i sedili con le mani, vedo da lontano il tipo paonazzo, poverino, non è certo un adone, ma è forse colpa sua? Però ora pare tutto contento, ringalluzzito, sorride e chiacchiera, ma con chi? Non si sarà mica messo a parlare da solo, poveraccio? Ah, no, di fronte a lui c’è una ragazza, vedo i capelli ricci che spuntano dal poggiatesta, ricci proprio come i miei. Sembrano, a dirla tutta, precisamente i miei capelli. È possibile mai? La ragazza porta occhiali con la montatura dorata, come me. Solo che lei sorride – sorride con la mia bocca, il mio naso le si arriccia, ma da dove salta fuori questa qui? E come si è permessa di prendere il mio posto? Non ho parole, non so cosa dire e dunque non dico, d’altra parte di ciò di cui non si può parlare bisogna tacere, no?

Rimango lì, in piedi, tossicchio per attirare l’attenzione, non attiro un bel niente. La ragazza parla e ride di gola, con una voce che mi pare proprio la mia, ma come posso esserne sicura? La mia voce l’ho sempre sentita venire da dentro, questa mi arriva da fuori, eppure è così familiare. Nessuno si cura di me, quei due ridono, e scherzano, passa il controllore e chiede i numeri dei posti, il codice Pnr io lo imparo sempre a memoria ché non si sa mai, la penultima lettera è una Q, sono pronta a rispondere ma nessuno mi interpella. Signorina, la sua lettera?, chiede il controllore alla ragazza, e indovinate un po’, lei dice Q.

© Riproduzione riservata