Come forse saprete, esiste una foto che mi ritrae accanto ad Al Pacino. Non lo sapete? E ve lo dico io: esiste. E giacché esiste, mentre molte altre non esistono, vorrei usarla come pretesto per dire una cosa sulla finzione vera e la finzione finta, e in particolare su cose vere che sembrano più finte di quelle inventate di sana pianta, e che quindi sono inutili, non si possono raccontare, le dobbiamo buttare o dimenticare.

Per un periodo, all’inizio dei vent’anni, andavo con un amico appassionato di cinema al Festival di Venezia. All’epoca volevo fare lo sceneggiatore, e il mio mito era Charlie Kaufman, mentre questo amico voleva fare il regista, e il suo mito era Bruce Springsteen (che col cinema non c’entrava niente, a parte Streets of Philadelphia, ma il mio amico aveva un mito unico e io uno per ogni disciplina, che poi sono le due strade della devozione, monoteismo e politeismo, lui era monoteista, io politeista).

Comunque, mettevo da parte tutti i soldi che non sfruttavo altrimenti, cioè partendo con gli altri per l’inevitabile Lloret de Mar, e andavo a Venezia per due o tre giorni con questo ragazzo. Poi tornavo a casa e distribuivo a quelli che erano stati a Lloret de Mar autografi falsi dietro foto vere: To Manuel, xoxo Scarlett Johansson; Hi Davide! Natalie Portman; To Marco, love, Charlize Theron. Sempre in quel periodo – oltre a vedere in anteprima film splendidi, che nei mesi successivi avrebbero vinto centinaia di premi e sarebbero in qualche modo passati alla storia, ma nel mentre, da inesplosi, non interessavano a nessuno dei miei conoscenti – collezionavo, istigato dalla nascita di Facebook, autoscatti con personaggi famosi.

Ora, io mi iscrissi a Facebook piuttosto presto, credo nel 2008, con l’obiettivo iniziale di calunniare i miei compagni di classe scrivendo sulle loro bacheche cose tipo «Auguri di pronta guarigione per il tuo problema di pus nell’uretra». Poi, a un certo punto, cancellai il profilo, perché una ragazza con cui uscivo aveva preso l’abitudine di condividere i suoi spostamenti ogni volta che litigavamo, per lanciarmi frecciatine – al cinema da sola (smile triste); sul corso con Roberto (smile che ride), e così via. Negli anni successivi, quando mi è stata posta la domanda «Perché non hai Facebook?» ho sempre risposto «Per sovraccarico cognitivo», chiarendo che Facebook mi dava, ci dava, troppe informazioni, mentre ognuno di noi ha il diritto di non sapere cosa pensino e facciano gli altri, come gestirebbero il piano nazionale di ripresa e resilienza, quanto soffrano il caldo, se siano a dieta o no, dove vadano con Roberto. Diritto a cui, in seguito, ho rinunciato per ragioni professionali (leggi: quando il tuo editore scopre che non hai un lussureggiante profilo su ogni social, fa la faccia che faceva la mia ex quando andava al cinema da sola: (smile triste).

Comunque, se mi aveste cercato su Facebook tra il 2008 e il 2012, poco prima che il mio account sparisse, sorvolando su quella storia delle delazioni e del pus nelle uretre avreste ammirato una galleria di foto da fare invidia alle trattorie romane, cioè io sorridente e benvestito che invecchio accanto a star di pregio: Quentin Tarantino, Kate Winslet, Uma Thurman, Tilda Swinton, Nanni Moretti, Joaquin Phoenix, Ben Affleck, Keira Knightley, Jessica Chastain, Carlo Verdone, ecc. Era una febbre: la Febbre dei Famosi. Arrivavo al Lido e ok, guardavo i film, mi emozionavo, mi compiacevo per la mia sensibilità, la mia profondità, apprendendo nel contempo delle cose nuove sull’arte cinematografica, ma poi, appena fuori dalle varie sale, allungavo il collo alla ricerca di bellezze ultraterrene, incarnazioni accessibili e per una volta disturbabili di agenti segreti, supereroi, imperatrici, dee. Se la strada mi lasciava inappagato, entravo nell’Hotel Excelsior e surfavo per ore sulla sua moquette – dalla hall alle terrazze, dal cocktail bar alla spiaggia privata, dalle toilette al famoso molo a cui attraccano le star, con la mano tremante sulla fotocamera per collezionare quante più foto potessi.

Al Pacino mi piovve fra le braccia per caso, in uno di quei tour, davanti a un ascensore. Per anni, la foto che ne scaturì fu il mio più grande successo, l’argomento con cui introdurre molte conversazioni e chiudere ogni disputa sul cinema: avevo ragione io, detentore di una foto con Al. Per il quale, d’altronde, nutrivo una documentata fissazione fin dai tempi del liceo, dovuta a ragioni artistiche ma soprattutto ancestrali, essendo Al originario del paese di mia madre, San Fratello, in Sicilia: a scuola, il mio banco era foderato di immagini tratte dai suoi film, accuratamente ritagliate dalla rivista Ciak e ricoperte con km di scotch trasparente (scrivevo i temi strusciando l’avambraccio sul tango di Scent of a Woman e cercando somiglianze tra i nostri zigomi nei primi piani di Serpico). Poi, certo, la gloria ha il suo prezzo, e infatti devo ammettere che la foto con Al, sicuramente la più preziosa della mia collezione, è anche in assoluto la più brutta, perché mi mostra sfigurato dall’incredulità, un tableau vivant dell’«Autoritratto come disperato» di Gustave Courbet. Ma tuttora, ogni volta che un conoscente mi racconta di aver incontrato Lazza a Calvairate, o Tim Roth ubriaco in un pub di Londra, o Mara Venier in tuta di ciniglia che porta fuori il cane, io ascolto, sorrido, mi congratulo e poi, a occhi bassi, sgancio la bomba: «Lo sai, sì, che io ho una foto con Al Pacino?». Nessuno ha mai potuto rilanciare, perché il Papa non vale, il selfie con Mattarella sa un po’ di vilipendio e più in alto di Al Pacino, francamente, chi c’è? Il fantasma di Elvis Presley? Il vino delle nozze di Cana?

(Altri vip che nella mia vita ho avvistato e con cui non ho scattato foto: Paolo Sorrentino, in un’era artistica di molto precedente a La grande bellezza, che cammina con la figlia in piazza Dante, a Roma. Lo guardo e penso: «Questo qua è bravo, ma poverino lo conosco solo io»; Morgan, in aeroporto a Lamezia Terme, inquieto perché ha perso la valigia, mentre la valigia, stando a una targhetta con su scritto «Marco Castoldi in arte Morgan», ruota solitaria sul nastro trasportatore: la sollevo dal nastro e gliela porto, corredando la cortesia di una gaffe sulla cocaina; Monica Bellucci, su cui non ho molto da dire se non che per me è stato come vedere la control room della creazione, come agguantare le maniglie dell’amore di Dio, come essere colpito all’inguine da un frammento astrale del Big Bang, al punto che non mi ricordo neanche dove l’ho incontrata, Monica Bellucci, ma so che l’ho incontrata, e che, come scrisse Walt Whitman immaginando quel momento, io che incontro Monica Bellucci e Monica Bellucci che inconsapevolmente incontra me, eravamo insieme, tutto il resto l’ho scordato; lo stilista Valentino Garavani che si protende verso l’orinatoio accanto al mio nel bagno di un teatro, e io che, una volta finito, spero non si lavi le mani per poter coniare la battuta «Rozzo Valentino».

Ma niente, se le lava; Patrizio Rispo di Un posto al sole dentro un bar nel centro di Napoli che beve un caffè e commenta in dialetto che è molto buono, un’altra cosa che se la racconti ti rispondono sdegnati «Cliché», e, sulla stessa linea, la linea del banalissimo, Miguel Bosé che costeggia la Plaza de Toros di Siviglia, un cliché al cubo; Louis Garrel che, sempre a Venezia, si siede in fondo alla Sala Grande durante la proiezione di un film non suo, e quando si accorge che io e il mio amico lo stiamo fissando – è lui?, non è lui? – ci fa l’occhiolino: è lui; i Måneskin, in treno da Roma a Milano. Questo però è un tasto dolente, perché, quando li incontriamo, i  Måneskin hanno vinto l’Eurovision da circa un mese, sono più che star, sono eroi nazionali, e Alzata-con-pugno, la mia compagna, che pure è una persona molto discreta, una foto la vorrebbe, visto che stanno a tre sedili di distanza, senza contare che il chitarrista, Thomas, ha corso avanti e indietro lungo il nostro vagone ininterrottamente per ore, roba che sarebbe bastato fermarlo e dirgli «Scusa giovane, due cose, la prima: la smettiamo?

La seconda: ci facciamo una foto?», ma io ormai sono impermeabile a queste tentazioni, le considero cafonate, nella mia vita da adulto ho avuto la fortuna di cenare, bere e persino danzare con autentici geni del nostro tempo, solo di un campo meno redditizio e popolare, quindi quando Alzata-con-pugno, scesi dal treno, vede Damiano accendersi una sigaretta e poggiare la schiena contro un pilastro della stazione ed espirare colonne ioniche di talentuosissimo fumo dal suo talentuosissimo naso, mi dice, tamponando i rivoli di bava, «Secondo te dobbiamo chiedergli la foto?» – usa dobbiamo, sì, perché fare questa foto è un imperativo sociale, rientra fra gli oneri derivanti dell’avere un profilo su Instagram – io rispondo, imperturbabile come un cavaliere crociato: «No, poverini, non rompiamogli i coglioni, non facciamo come tutti». E poi, strizzando l’occhio: «Siamo fuori di testa, ma diversi da loro». Lei ancora non me lo perdona, sia il no sia, comprensibilmente, la battuta).

L’incontro migliore di tutti, però, risale al 2017, quando questa cosa delle fotografie cominciava già a imbarazzarmi molto, e infatti avevo smesso di collezionarne – forse perché il mio obiettivo finale, quello scritto nelle stelle, era vedere dal vivo Monica Bellucci, e l’avevo vista, ero sopravvissuto, avevo ascoltato il canto delle sirene senza gettarmi in mare: pace.

Quell’anno, al Lido, l’ossessione collettiva, e quindi anche la mia, era Madre! di Darren Aronofsky, con Jennifer Lawrence protagonista. Il giorno della prima, in attesa di vedere il film, ero su una poltrona del bar dell’Hotel Excelsior, da cui conversavo telefonicamente con Alzata-con-pugno di spurghi e nottolini (avevamo un problema alla caldaia).

A un certo punto colsi un vociare: ne fui attratto: mi alzai, lo seguii e raggiunsi il molo, gremito di fotografi per l’attracco del cast di Madre!. Lì, successe tutto molto in fretta: nel tentativo di migliorare la mia visuale sul taxi boat di Jennifer Lawrence, ostruita a sinistra da un bodyguard e a destra da un ficus, agii furtivamente, e cioè alle spalle del bodyguard, aguzzandomi tra il muro dell’Hotel e le fronde del ficus, per oltrepassarlo. Ma l’albero – non ci avevo pensato – fungeva da barriera fra l’area aperta al pubblico e la passerella dei vip, quindi, aggirandolo, mi sarei ritrovato nel versante interdetto, a fronteggiare come un doganiere l’arrivo delle star. Cosa che, ovviamente, accadde, e proprio mentre Jennifer, seguita dalla sua claque, marciava verso l’Hotel. Nella confusione, tra gli applausi e i flash, fui inglobato nel corteo, e scortato dalla security dentro un privé, dove vissi quindici minuti d’apnea nello champagne, a vuotare coppe lucentissime e sorridere d’intesa a degli sconosciuti (mentre pensavo a cosa dire nel caso in cui uno di loro, magari proprio Jennifer, mi avesse puntato il dito contro per denunciarmi agli altri: «Wait, who’s that guy?»).

Ma non successe. E non successe, credo, perché continuai impassibile la mia telefonata con Alzata-con-pugno – avendole  sussurrato a denti stretti, poco prima di accedere al privé, «Ora sto zitto per un po’, ma parla tu, non chiudere, ti prego, raccontami quello che vuoi» – fino ad approvare con piccoli mugugni la sua decisione di intervenire sulla caldaia con una disotturazione a pressione tramite sonda, del costo stimato di 260 euro. Mugugnare al telefono mi aveva dato l’aria di essere qualcuno, magari un instancabile squalo dello showbiz, o un emissario dello staff del Festival (per quelli dell’Hotel), o un delegato dell’Hotel (per quelli dello staff del Festival), o un ospite privato di Jennifer (per tutti quelli che non erano lei, o suoi ospiti). Il delitto perfetto, insomma, di cui mi ero macchiato involontariamente, senza mentire né disturbare, solo grazie a un ficus ingombrante e alla mia innata capacità di passare inosservato, nonostante i 185 cm d’altezza.

Aveva un buon profumo, la signora Lawrence? Sorrideva, lontano dai paparazzi? Ma soprattutto: le dive del cinema, in occasione delle première, portano con sé il cellulare? E, se sì, lo tengono loro o si servono di un portatore di cellulari, che funge anche da lettore di messaggi? Sono domande a cui posso rispondere, perché in quei quindici minuti da clandestino, composti al 70 percento d’ansia e al 30 di meraviglia, ho incamerato un buon numero di spigolature sulle trasferte delle star. Solo, inutilmente.

E dico «inutilmente» perché, all’infuori di Alzata-con-pugno, che era al telefono con me, nessuno a cui l’abbia raccontata ci ha mai creduto, a questa storia. Già quando arrivo alla parola «bodyguard» la gente mi guarda strano, inarca le sopracciglia, fa una smorfia che significa «Esagerato». E io odio che mi si accusi di esagerare; odio che si pretendano prove, che mi si chieda se una storia è vera o no; odio dover rispondere, piccato, «Sì, è vera, che c’è, ci sono dubbi?». Pertanto, dopo molte delusioni, ho deciso che lo champagne con Jennifer Lawrence sarà estromesso dal mio repertorio di fatti interessanti, e riposto nella teca delle cose dimenticabili, a contendersi la polvere con la ricetta del banana bread. State leggendo il suo necrologio.

Quello che mi dispiace è che, amore per il cinema a parte, la faccenda del vip-watching è stata a lungo il mio modo per mostrarmi speciale, per avere a portata di mano aneddoti impareggiabili, e quando finalmente avvisto un fiore raro – le buone storie sono stelle alpine – all’uditorio il racconto non basta, o sembra troppo. Quindi, ecco, lo poso qui, lo sigillo per sempre, ve lo regalo; con una postilla: stravediamo per l’aggettivo “autentico”, pretendiamo ovunque l’assoluto realismo, ma a cosa serve, questa autenticità?; su che base poggia la nostra idea di realismo, se per risultare realistica, efficace, autentica questa mia storia vera richiede un allegato fotografico, o di essere ridotta a verosimile, cioè impoverita, artefatta per difetto?

Io non ci dormo la notte: tremo all’idea che prima o poi, per adeguarsi al nostro scetticismo, la realtà smetta di offrirmi momenti eccezionali. (Peraltro, scusatemi: perché mai di una cosa vera molto bella o molto interessante si dice «sembra finta», mentre di una cosa finta altrettanto bella si dice «sembra vera»? Decidiamoci: per essere bella, una cosa, una storia, dev’essere vera o dev’essere finta? Spero la prima, santo cielo, altrimenti cosa è vera a fare, questa cosa dello champagne con Jennifer?

Perché mi è successa veramente? Non sarebbe meglio se fosse davvero finta, se fosse nata romanzo? Non sarebbe più comodo per tutti se, da oggi in poi, oltre a spacciare per vere delle storie inventate, spacciassimo per finte delle storie assolutamente reali? Non sarà forse il caso di decretare, per sempre, l’inattaccabile superiorità della finzione?)

… nell’attesa di capirlo, visto che ormai sono qua e ho la vostra attenzione: se tra i lettori c’è qualcuno che conosce Damiano dei Måneskin, vorrei fargli recapitare il seguente messaggio.

Ciao, Damiano. Una volta avrei potuto disturbarvi e non l’ho fatto, perché sono un signore. Ma siccome essere un signore non mi ha condotto che a rinunce e frustrazioni, approfitto di questo incolpevole giornale per dirti che MI PENTO, che HO SBAGLIATO, che LA VOLEVO, QUELLA FOTO. Sai, Damiano, ti parlo da uomo innamorato a uomo innamorato: ho costretto Alzata-con-pugno, un’amante della realtà vera, ad avere anche lei, come me, un aneddoto reale ma irrealistico, e cioè un bel ricordo inutile, una freccia troppo pesante perché vada a segno. Quindi ti prego, favoloso artista, bandiera dell’Italia nel mondo: se ripassate da Milano, potreste, per cortesia, avvisare, riservarvi un minuto per noi, condividere la posizione, così ci facciamo quel selfie e la freccia finalmente fende l’aria, l’inutile diventa utile, il romanzo – vivaddio, saranno tutti contenti – diventa realtà?

Ricambio con foto autografata: To Damiano, love, Charlize Theron. Autentica, sì. Ci sono dubbi?

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