Confesso subito che, nonostante una lunga esperienza sul campo, una conversazione con una Psychodonna mi mette un po’ di ansia. Lo dico a Rachele, che se la ride sotto la sua coppola scura, seduta davanti a un computer, come me. Dietro di lei una parete a quadroni scuri, burocratic-chic o addirittura lynchiana. Mi dice che è lei ad avere l’ansia nelle interviste. Mi dice anche che lei è molte cose opposte e non si preoccupa di essere «questa o quella… semplicemente, sono», conclude.

Bello. Io le rispondo più o meno come i professori di Ecce Bombo alla maturità: è una semplice conversazione, non c’è il voto finale. E se ci fosse sarebbe comunque 8+, perché a me, glielo dico subito, il suo concept album (oh yea) è piaciuto molto molto.

E mi piacerebbe psicanalizzarla Rachele Bastreghi, questa Psychodonna che ha cortesemente accettato di conversare con me. Le chiedo se da quelle parti c’è una chaise-long sulla quale sdraiarsi. Ride, dicendo che ormai sono quattro anni che si sdraia su una chaise-long. Poi si lamenta perché mi vede bere e fumare e lei invece non può. Ma come, sei una rockstar, dico io, puoi fare quello che ti pare! Ordina subito un Southern Comfort (quello che beveva Janis Joplin, veramente pessimo)! Ride di nuovo, per fortuna, e questo mi permette di attaccare con la mia solita, pesantissima, prima domanda.

Iniziamo dal tuo romanzo di formazione. Parlami della tua famiglia e di quando eri piccola, di come sei cresciuta e della tua vita nell’adolescenza, che poi è l’unica cosa che conta.
Io sono di Acquaviva di Montepulciano. Una delle prime cose che mi ricordo è Pinocchio, lo sceneggiato Tv, lì è nato il mio amore musicale, il tema di Fiorenzo Carpi di Pinocchio. Poi si parla di un bambino, del suo struggimento, del contatto con il dolore.

Quindi, ecco, ero una psycho bambina! Nel 1981, avevo tre anni, mi dicono che il primo pezzo che cantavo e ballavo era Mister mandarino dei Matia Bazar, quindi vedi un gruppo di uomini con una donna, che poi ho fatto nella vita con i Baustelle. E poi c’era la chiesa che è stato il mio primo palco, facevo parte dell’azione cattolica ragazzi, e c’era il bar dell’oratorio e nel bar c’era il juke box. E allora dicevo vado all’Acr, l’azione cattolica dei ragazzi, e poi mi fermavo al bar, le prime sigarette… è li che ho scelto la via tra l’acqua santa e il diavolo! Da bambina stavo sveglia la notte, studiavo, scrivevo, tenevo un diario, suonavo. E ballavo la break dance, imparavo i passi di Michael Jackson, la musica per me è sempre stata fisica, movimento.

Per sette anni ho studiato pianoforte, ma non studiavo un cazzo, non avevo voglia, sfruttavo le poche cose che imparavo solo per suonicchiare quello che volevo io. Poi proprio in quel periodo è nata l’insicurezza madre, che non sapessi cantare. Poi ho trovato un mio modo. Ho sempre ascoltato gli uomini cantare. Alle medie ho messo da parte il pianoforte, mi sono fatta regalare la chitarra elettrica. Suonavo Mina e Battisti e poi di colpo mi sono messa a suonare i Nirvana, avevo la camicetta al culo come da regolamento grunge, ero la bulletta muta della scuola, sempre con le cuffiette, ero casinista e “a cazzi miei”, anche oggi, passo dal mutismo al casino, non esco mai ma se esco non so se torno, ecco.

È un po’ un casino, ora devo provare a vedere chi sono, ho bisogno di fermarmi e prendere anche coscienza e un po’ consapevolezza, cominciare a dare un nome alle cose, perché così si cresce. Il mio disco è questo.

Sempre sia lodata la Chiesa cattolica che ci ha insegnato a peccare.
Sì. I posti di chiusura fanno bene, perché ti viene voglia di evadere. Io poi facevo i campi scuola dove cominci a capire che la vita non è quella che ti vogliono raccontare. Io ero muta, non c’era gusto con me. Piangevo subito, io mi auto-punisco, mi auto-analizzo, sto già così male da me che nessuno mi rompeva i coglioni. Ma avevo una famiglia normale, ho fatto le mie cazzate, ma ho sempre avuto paura del prossimo, le cazzate le faccio con l’ansia, perché c’è sempre il senso di colpa preventivo. Colpa della Chiesa.

Onori e oneri. Io sono grande fan dell’ansia, anche perché se ce l’hai non hai molta scelta; il senso di colpa grazie a Dio (battuta!) . lo frequento solo per le cose importanti, se solo mi ricordassi quali sono… ma dimmi di quando hai lasciato la provincia per venire a Milano.
Nel 2008. Sono rimasta un anno seguendo Francesco Bianconi, era un periodo di fermento di possibilità, di scambio, anche culturale e musicale, ovviamente. In Toscana era un po’ ferma la faccenda, nel paesino. Ci ho provato a Milano, ma non ero pronta, ho fatto un po’ la vacanziera, non ero io la protagonista, anzi, non ero io e basta, e quindi dopo un anno me ne sono andata. Era una scelta dettata dal fatto che qualcuno ti dice vieni a Milano che è figo, ma non ero davvero io a voler venire. Poi dieci anni fa, nel 2011 sono tornata e ci sono rimasta.

Ma quindi la prima volta non hai avuto l’impressione di trovarti in un luogo più libero?
Sicuramente venendo anche la prima volta, ho visto più libertà e diversità mentre magari in provincia… poi la sofferenza è lo stessa e Milano può anche essere spietata. Però certo nel paesino… io avevo la testa rasata tipo Sinead O’Connor, cantavo solo i pezzi di Dolores O’Riordan, anzi il provino per entrare nei Baustelle l’ho fatto cantando Zombie dei Cranberries, cantavo a scuola, ero così e quindi combattevo con una serie di pregiudizi, ma da una parte essere un po’ tra le nuvole, visto da oggi, era una forza. Quella fragilità che poi alla fine viene accettata o addirittura esaltata. In quel momento però ti sentivi in minoranza. A volte mi dico che il fatto di essere musicista artista è come se fosse un lasciapassare per poter essere “strani”, che è un gran cazzata, però quell’artista e quel musicista può trovare un modo per aprire gli occhi alle persone. Mi son fatta i miei pianti per le voci che giravano, ci sono le persone cattive, quando sono venuta a Milano è stata una passeggiata, questo è vero. Io stavo sempre tra i ragazzi, il mio essere femminile è molto maschile, ho due parti molto forti. Giocavo a calcio da ragazzina e poi leggi che oggi nel 2021 c’è gente che caccia di casa le figlie perché giocano a calcio o sono lesbiche. Mi sono resa conto di quanto fossero aperti i miei genitori, stavo sempre in mezzo ai maschi, però il mio babbo si fidava di me e capiva che per me era importante. Poi ho avuto due storie importanti con due donne…

Quando stavi ancora nel tuo paesino? Cioè hai fatto coming out ad Acquaviva di Montepulciano?
Mmm. No, molto faticoso fare coming out. Diciamo che è stato nel silenzio, amo molto i film muti perché mi ci rivedo molto; molto corpo, molte espressioni e poche parole. Faccio fatica con le parole. In Toscana mi chiamavano Millemosse. Questo lavoro, questo disco da questo punto di vista è una rinascita, per me e per le mie parole.

Quindi erano relazioni clandestine?

Non erano clandestine, è che non ne parlavi. Le cose son cambiate tanto in vent’anni e meno male. Vedo ventenni che sembrano sfacciati, se non addirittura arroganti, ma a vent’anni è giusto, perché sei nel picco della scoperta delle emozioni e tenerle dentro o averne paura o addirittura vergogna è dolorosissimo.

Sì. Detesto i giudizi sommari sulle generazioni successive. Puoi non ascoltare la trap ma questo non ti autorizza a dire che fa schifo e a trarne chissà quali giudizi su un’intera generazione.

Ho un nipote di ventun’anni che sta a Roma e in una intervista ho detto che fa trap. Lui mi ha chiamato e mi ha detto «ma zia io non faccio trap!». Ah ok, gli ho detto, ma allora scusa che fai? E lui ha detto che faceva rap. Poi mi ha spiegato bene la differenza. Io gli ho detto ok, mi sono scusata, però gli ho anche detto di ascoltare anche musica diversa.

La vecchia zia che non ha capito un cazzo. Fa molto ridere.

Però devi ascoltare Bach! La formazione classica, lo struggimento, il barocco, il contrappunto è quello che mi muove, insieme a cose completamente opposte: la drum machine e i Kraftwerk. Ma bisogna ascoltarla la musica per farla! Poi dipende da che vuoi fare, ma non mi piace l’idea che si riduca a rappare un testo. Per me la musica è una visione completa, essere cantante per me è l’ultima cosa.

C’è un notevole elenco di influenze letterarie nel tuo disco. O almeno così hai detto: Alda Merini, Sylvia Plath, Anne Sexton e Antonia Pozzi, l’inevitabile Virginia Woolf e Rimbaud. La collezione completa insomma. Perché hai sentito il bisogno di schierare il dream team delle poetesse e scrittrici suicide?

Mi son ritrovata nei loro libri in questi ultimi anni, io non sono una lettrice incallita, ma cerco il ritmo delle parole, per questo leggo poesia. Ma mi interessano più le persone che le poesie. Sono donne che per me esemplificano la lotta contro i propri demoni, mi hanno fatto sentire meno sola, più coraggiosa. Mi hanno dato forza.

Loro hanno vissuto in periodi molto più crudi e duri dei nostri tempi, oggi la donna dovrebbe avere più peso e rilevanza nella società, eppure per esempio ancora oggi si fa fatica a essere autrice o compositrice. Non sono luoghi comuni. La donna è soubrette, ballerina, cantante. Quante ce ne sono di cantautrici rispetto agli uomini? Così come nella musica elettronica.

Le poetesse maledette, anzi, psicopatologiche… è una specie di autodafé del rifiuto sociale della diversità questo album.

Mi sono messa in croce, un po’. Un momento di liberazione, vissuto anche con vergogna. Sono il diavolo e l’acqua santa; sbaglio e non sbaglio. Voglio metterci la paura, non ho paura di essere o non essere questo o quello, ora posso dare un nome alle cose e semplicemente essere. Nella confusione, ancora oggi, ma prima non avevo certo gli strumenti per dire chi sono, nemmeno ora non lo so se li ho gli strumenti, ma ho imparato a fregarmene. Il disco parla di me e qualcuno si ritroverà. La sincerità è importante, la forma e la logica gliela dai dopo, però all’inizio io le vomito le cose.

Parliamo del tuo disco allora. È un po’ tardi anni Settanta. Elettronica, suoni, i fiati synth, la tua voce scura, lo Yamaha Disklavier. Mi pare appartenga a una certa tradizione cantautoriale: femmina, off ed elettronica.

Ho ascoltato tanto il primo Battiato, quello più sperimentale ed elettronico, ho cercato dischi liberi, con le voci parlate, ma anche i Matia Bazar e Giuni Russo… sono dischi che sono rimasti, c’è una scrittura e un cantato particolare, c’è introspezione, anche cupezza. Volevo urlare piano. Anche perché ho scritto di notte e non potevo tanto urlare quindi cantavo basso, ma venivano a bussarmi lo stesso… Una caratteristica del disco dipende completamente dai Baustelle: con loro canto spesso alto, la voce femminile, qui canto solo io e ci ho messo sempre due o tre linee vocali che cantano insieme, come se le diverse sfumature dovessero andare insieme, il bianco e nero e il colorato, la femmina e il maschio. A me poi piacciono le voci cupe, le “strillozze” le odio, preferisco il parlato, il sospiro. Ho trovato un po’ di pace facendo convivere questi aspetti.

Ultimamente uno ascolta sempre più dischi pop in cui ogni pezzo è totalmente diverso dall’altro. Anche il dire che è un concept album – e lo è – è sensualmente anacronistico.

Come se fosse un unico discorso, per cui era normale non mi ricordo nemmeno perché, mi piace e basta, il concept album, è come un film, una storia d’amore, una vita racchiusa in un disco.

E anche un disco molto diretto, no frills, coerente ed essenziale.

È quello di cui avevo bisogno; di isolarmi anche per sfuggire alle maschere, alle paure. Me ne volevo fottere del «questo funziona o questo non funziona», uscire da ogni logica, da ogni giudizio e pregiudizio, divertirmi e non avere paura, crearsi uno stratagemma, come Penelope. Che la confusione sia d’aiuto!

Un po’ Nada, un po’ Alice, un po’ Rettore e un po’ francese…

Alice mi piace un sacco e anche Nada, li hai presi, si capisce vero da dove vengo? È una maledizione, però il francese, l’ho studiato otto anni e non so una parola, ho cantato malissimo in Marie, che era il mio primo Ep e ora mi è venuto il blocco. Però ho un legame con la famiglia Gainsbourg, Dalidà, i cantautori francesi anni Sessanta. Ma anche Edda dell’Orso e Nico. Le cose che mi piacciono messe insieme creano una specie di mostro musicale.

L’uso del parlato, di frammenti insieme all’elettronica ti piazza dritta nella zona performance e art-rock.

Io le voci le sento e le fermo in qualche modo. Le ho scelte per il suono, per esempio Anne Sexton… ho scoperto solo ora che c’era un gruppo che musicava le sue poesie e lei le leggeva. Che poi quello è un pezzo quasi prog. È come il preludio degli Osanna nella colonna sonora di Milano calibro nove. Lo ascolto ogni giorno, e lo dirigo pure, mi fa venire lo struggimento (e qui Rachele non si tiene e accenna il preludio degli Osanna). Ci sono tante cose che non ho cercato, sono uscite, come se avessi bisogno di dire chi sono e un po’ l’ho capito. Anche se puoi impazzire a essere una Psychodonna, ma puoi anche trovare l’equilibrio. Mi stupisco di me, di quanto io sia diversa da un giorno, anche se c’è un filo sottile che ti guida. Non sono bipolare, mi sono fatta vedere, volevo che me lo dicessero e invece niente.

Mi fai venire in mente le teorie dei medici-filosofi francesi o come disse poi Nietzsche, la visione dell’io come “costruzione societaria di molte anime”. O forse oggi siamo semplicemente tutti microbipolari, una nuova, splendida patologia. Up and down in pochi minuti. Come le tue canzoni che spesso partono col magone e alla fine batti il tempo…
Combatto queste fasi diverse cercando tutti i giorni di trovare la cassa in quattro, senza la cassa in quattro sarei morta.

Not for me, ha un tiro pazzesco, una roba eighties, con la voce robotica. Molto figa davvero.

È un po’ un mea culpa, un elenco di comportamenti sbagliati, di cose fatte e di cose che non voglio più. Non voglio più nascondermi, soffocarmi, intrappolarmi. Voglio ripartire e vedere le cose per come sono state, rendermi conto che anche se non sono ordinaria forse va bene così, devo solo trovare il mio modo, accettarmi. C’è un ritmo incalzante poi nel pezzo, anche un po’ afro. Viene dalla mia lunga carriera di suonatrice di bongo.

Oddio, no, li ho sempre odiati i suonatori di bongo, al parco Sempione a Milano, una piaga sociale.

Ahahahah. Ma io suonavo in mezzo ai campi. Arrivavo a sera con le mani e i polsi fasciati e sfasciati. Come le poetesse, trovavo piacere nell’autolesionismo, finivo proprio tumefatta a furia di picchiare sui bonghi. Ora che te ne parlo mi sembra così lontano, mi sembra d’aver vissuto quattro vite… è un casino, qualcuna me la dimentico.

A proposito di autolesionismo, hai ripescato un pezzo non troppo noto dal primo album di Anna Oxa, scritta da Ivano Fossati, nel quale si allude alla dolcezza dei rasoi sulla pelle. Oggi succederebbe un casino, no?

Io spero che si riparta dall’oggi, però è vero, le donne erano fighissime, Patty Pravo, la Bertè, Anna Oxa. Io le guardo, guardo alle loro identità, così uniche e precise.

Oggi non le ritrovo. Esprimevano veramente loro stesse, c’era una libertà che oggi non mi pare ci sia. Non voglio rompere i coglioni, faccio il mio e non sono competitiva, ma vorrei che le donne si svegliassero, non penso sia colpa nostra ovviamente, ma dovremmo svegliarci un po’ e soprattutto smettere di darci addosso donne contro donne.

Si parla di maschilismo quando invece a volte siamo “sbagliate” tra donne, dovrebbe esserci più unità, amore, comprensione, famiglia tra le donne e invece a volte siamo stronze. Vedo spesso cattiveria. Alla fine galleggiamo, ci facciamo scegliere in qualche modo.

Segue dibattito. Lo sai che hai fatto un disco che ti fa venir voglia di alzare il volume, a ogni pezzo di più, fino ad arrivare a fine corsa della manopola quando parte la title track, Psychodonna e mettersi a ballare. Lo sapevi? Lo volevi?

Grazie! Figurati che a me hanno detto che avevo fatto un disco difficile e coraggioso, mi son detta mamma mia, ma come difficile? Difficile vuol dire ormai semplicemente che va ascoltato! E al volume massimo, hai ragione! A bomba! Non basta mai il volume. La cosa che mi dà soddisfazione è (spero!) essere riuscita a trasmettere cosa provo quando faccio un disco o quando ascolto un disco.

Deve farti alzare dal divano, deve essere roba che non può stare in sottofondo. A me piacerebbe che la suonassero nei club Psychodonna, vorrei che fosse il disco dell’estate. A volume altissimo e zitti tutti, come quando viaggio in macchina. Se mi abbassano il volume tiro cazzotti. Volume a palla, altrimenti meglio stare in silenzio.

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