Per capire a colpo d’occhio quanto la televisione sia cambiata basta un confronto degli argomenti che a partire dal 2012 hanno offerto la materia al Festival della Tv, che occupa annualmente le piazze di Dogliani nel cuore delle Langhe. Nella prima edizione, tra gli scricchiolii della crisi finanziaria e con i tecnici al governo, la parte principale del proscenio era presa da manager e volti del duopolio Rai-Mediaset, entrambe impegnate, anche dietro l’incalzare di La7, a suonare il piffero anti casta. Argomento allora obbligato, astuto e taumaturgico per radunare pubblico ai talk show.

Ma, ad avere le orecchie lunghe, già in quel 2012 la campana avvisava della crisi del mondo tv-centrico conseguente al dilagare dello smartphone. Questo era il computer telefonico e tascabile che promuoveva i social al ruolo di piattaforma mediatica ubiqua e permanente, forte del costante contatto con le timeline degli utenti. A beneficio di notizie vere e fasulle nonché delle foto dei gattini.

L’evoluzione

Da lì inizia la fine dell’istituzionale e lo scuotimento della professione giornalistica ridotta alla social-dipendenza e al pastone. Poi si aggiunse il sopraggiungere di Netflix e la diffusione dello streaming lecito e pirata, che spostò il baricentro del sistema della fiction dagli uffici di Rai e Mediaset ai produttori che in gran parte ne erano i clienti. Perché questo mondo intravide la via per scalare i gradini del mercato globale da cui per la pochezza della committenza duopolistica erano stati fino allora esclusi.

A dire il vero, la televisione del Duopolio, quella del salotto e del tinello, è riuscita sul piano delle audience a tener botta, ma in tono progressivamente più dimesso. Museo di sé stessa dal lato Mediaset che dilapidava la voglia di innovazione nell’avventura mal riuscita della tv a pagamento tutta sua.

Mentre in Rai la auto lottizzazione senza tregua assorbiva ogni energia e costringeva all’outsourcing del cervello editoriale presso gli specialisti del contenuto esterni (agenti e produttori).

Ecco perché nel programma 2023 del Festival della tv di Dogliani (dal 2 al 4 giugno e si entra gratis) ci sono molta radio (Linus in primis), molta cultura e molto digital, come s’addice a un mondo in cui podcast (ne parleranno Antonella Viola e Daniele Bossari) e video sono fabbricati non solo dalle imprese, ma anche da chiunque abbia quattro arnesi in casa.

Dalla tv al “televedere”

Al tirare delle somme la “televisione” oggi è un termine che comprende, senza dubbio, la “tv tradizionale” (la rappresenterà Urbano Cairo, intervistato da Francesca Fagnani), ma all’interno di un televedere complessivo che s’affida a galassie di schermi – grandi e piccoli, fissi o portatili – a cui il consumatore presta il suo tempo di vita e la sua variabile attenzione.

Questa è attualmente l’audience, cui si dirige una tempesta di meteore di “comunicazione”, o più spesso semplici pizzicotti all’attenzione, che piacciono comunque alla pubblicità palese e occulta e che generano i ricavi per chi riesce ad aggregare in qualche modo tanto magma.

Un magma senza senso

In questo ambiente è ovviamente molto arduo anche il solo proporsi di tenere il filo d’un discorso e perseguire un progetto culturale invece che ogni spiffero al momento (interessante sarà il panel sul rapporto tra intelligenza artificiale e creatività).Quest’impresa, per quanto temeraria, è al centro di più d’una sessione del festival e lo caratterizza nell’insieme. Fine generoso, di sicuro complicato.

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