Raffaele La Capria ogni volta che poteva faceva uso d’ironia; il suo essere sempre un po’ sfottente non si fermava nemmeno davanti alla sua stessa morte. Si figurava quel momento cadere nella falsa curiosità di chi a cena dice: è morto La Capria. Chi? Quello della bella giornata? Non so. Lo hanno detto stamattina al telegiornale. E hanno aggiunto che aveva Napoli nel cuore. Passami l’insalata. Per dopo ho comprato un buon dolce.

La Capria, chi?

In effetti un po’ ci “azzeccava”; per un altro po’, invece, sarà smentito. Per molti la notizia della sua morte a quasi cento anni avrà una risonanza davvero inaspettata, perché pochi scrittori sono stato amati dai lettori come lui; quasi fossero amici con i quali instaurare un vera conversazione e come le vere conversazioni mai esenti dallo spirito critico e dall’indipendenza di giudizio.

Il motto al quale si è sempre attenuto La Capria è il greco: conosci te stesso. E per farlo ci è voluto un gran lavoro; un lavoro infinito che metteva in gioco ogni cosa, sapendo però che un’opera era stata edificata e che nessuno l’avrebbe potuta demolire mai del tutto.

In similitudine con quel che accade con il venerato palazzo Donn’Anna; un mastodontico edificio seicentesco mai finito, sorgente direttamente dalle acque del Mediterraneo e dunque di Posillipo («Ridammi Posillipo e il mare d’Italia» cantava sconsolato l’amato De Nerval da Raffaele tradotto per puro regalo del cuore).

Palazzo Donn’Anna sempre bisognoso di cure, sempre pronto a sfarinarsi sotto l’onda d’urto degli elementi e sempre in piedi ad accogliere bonacce e tempeste.

Tra Raffaele e quel luogo si era stabilito un rapporto d’intimità immaginativa quasi sconcertante. Da quel luogo lo scrittore estraeva l’intera città di Napoli come da una radice quadrata.

E quante incomprensioni, quanti sberleffi inutili sull’armonia perduta, descritta da chi non aveva davvero letto le sue opere come il mito di un posticcio Eldorado, quando la vera armonia perduta era quella del corpo che si stacca dalla mente, dalla mutilazione dei sensi, dalla perdita della sensualità che il mare insegna ai suoi veri adepti.

Non a caso per il suo romanzo di esordio, Un giorno d’impazienza, aveva scelto i versi di Prevert in cui si sostiene che la mente lasciata da sola mente monumentalmente. Veniva soprattutto da Proust questa consapevolezza che mai andava teorizzata ma solo vissuta.

Vissuta con la cocciutaggine di un mediterraneo che sa quanto il mare sia il vero polmone del mondo. Le cose sott’acqua acquistano meraviglia, si legge in un passo di Ferito a morte; il romanzo dove il mito della bella giornata prende forma e si dirama e si diffonde nelle sue tante opere successive, migliaia di pagine da riempire ben due tomi dei Meridiani mondadoriani. E in ogni pagina sempre la stessa domanda: io chi sono davvero? Come posso stare al mondo con decenza?

Diffidare della finzione

Da queste domande è venuto uno smottamento progressivo che ha portato La Capria a diffidare della finzione e del romanzesco.  Da False partenze (1974) fino agli Esercizi superficiali (2012) passando per Letteratura e salti mortali, La mosca nella bottiglia e Lo stile dell’anatra, il romanziere si è ibridato con il saggista, il diagnostico della società ha camminato con lo smascheratore della vera falsa letteratura.

Tutto all’insegna dell’indipendenza (indipendenza anche da Napoli, la città del suo poetico litigio); tutto messo in discussione usando e riabilitando il senso comune, ben diverso dal buon senso, alla strenua ricerca della misura.

D’altronde il mito della bella giornata è basato sull’alternanza di hybris e nemesis, di luce e di ombra, di necessaria chiarezza da chiedere a sé stessi, pena le tante posture che circolano sulla scena culturale dell’oggi e che impediscono una veridica conoscenza.

La Capria era nato insieme al fascismo nel 1922, facendo parte delle più fertile generazione del secondo Novecento, forse l’ultima che abbia ancora avuto la necessità di confrontarsi con la Storia, di tenere a bada l’ego al cospetto della Natura.

Calvino, Pasolini, Sciascia, Fenoglio, Ortese, Natalia Ginzburg fino a Garboli e a Parise: si è trattato della generazione dei nostri antenati prossimi; di quegli indagatori del reale per virtù di alfabeto che hanno creduto nella letteratura come una forma di conoscenza insostituibile.

Un dilettante d’ingegno

Proprio Parise in una lettera di grande risonanza emotiva chiedeva da Salgareda al suo amico napoletano di raccontare «il suo doloroso capire tutte le cose». In Italia essere sé stessi, come aveva sperimentato Giacomo Leopardi, l’antenato degli antenati, non è mai disgiunto dal dolore.

Deriva forse da questo che La Capria sia stato considerato come un corpo estraneo, un dilettante d’ingegno da leggere la mattina sul Corriere e dimenticarsene il pomeriggio. Ciò non toglie che la sua presenza nella città di Roma, dove si era trasferito negli anni Cinquanta, abbia contribuito ad allevare molti di quelli che negli anni Novanta erano giovani talenti: narratori, poeti, uomini di cinema e di teatro.

Si pensi, solo per fare un esempio, alla venerazione di un Paolo Sorrentino, che ha sempre sognato di mettere in pellicola Ferito a morte. D’altronde, pur tenendosi a debita distanza, La Capria ha sempre scritto anche per il cinema; sue le sceneggiature di alcuni film di Franco Rosi, prima fra tutte Le mani sulla città. E come dimenticare il sodalizio con Giuseppe Patroni Griffi, soprattutto per quel che riguarda la messa in scena di Eliot.

L’amore coniugale con un’attrice come Ilaria Occhini non poteva non figliare una duratura attenzione per quel che riguarda celluloide e tavole di palcoscenico. Prima di tutto però la lingua, l’oralità inventata per iscritto, l’inarcarsi della frase come un’onda: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia e insieme di rendere omaggio al civilissimo senso comune de patrii numi», aveva scritto.

Ne derivava un lavoro infinito, mai pago dei risultati, un continuo riscrivere quasi più nella mente che sulla pagina, un’incessante pratica del me visto da lui stesso.

Raffaele La Capria accusava la vita di avergli fatto perdere tempo per scrivere

Frequentare la poesia

Un lavoro che poteva accomunarlo a quello dei poeti. Lui però di versi suoi non ne scriveva; preferiva frequentare la poesia come traduttore. L’aveva fatto da giovane sulle pagine di Sud, la rivista di Pasquale Prunas, che aveva messo attorno allo stesso tavolo i migliori talenti napoletani del Dopoguerra, a cominciare da Luigi Compagnone fino alla napoletanizzata Anna Maria Ortese.

Su quelle pagine erano apparse le prime traduzioni di Auden (dal quale trasse l’esergo per Ferito a morte) e soprattutto di Eliot. I Quattro quartetti, tradotti prima in compagnia di Tommaso Giglio e poi da solo, hanno accompagnato tutta la vita di Raffaele La Capria.

Li ha limati e rilimati; ne ha fatto un’icona della sua mente, come un refrain da dirsi tra sé e sé: «Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine. / E segnare una fine è segnare un inizio».

Quando l’altro ieri sera sono andato da Raffaele per l’ultima volta, trovandolo nel suo lettuccio d’ospedale attaccato agli strumenti misuratori del battito cardiaco e del respiro, indomito nel suo volersi levare dal viso la mascherina dell’ossigeno, uccellino leggero tra le lenzuola, ho pensato che nella sua mente indagatrice nel buio, nel suo stare sulla soglia davvero ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine. / E segnare una fine è segnare un inizio.

Gli strumenti misuratori della vita malata mandavano suoni sinistri, ma Raffaele, nella sua proverbiale sordità non poteva sentirli; di sicuro non disturbavano il suo udito fattosi d’improvviso giovane e fiorente di cromie. Sono quasi certo che ascoltava il cri-cri dell’uccello che manda il suo canto nella solitudine del cosmo; quel cri-cri che aveva voluto come ultima parola nel suo Meridiano.

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