Alcuni mangiano il ramen pensando a Naruto e i mochi pensando a Dragon Ball. Quando prendono con due mani gli onigiri (le polpettine di riso triangolari) per portarseli alla bocca, chiudono gli occhi e si immaginano rannicchiati a terra come Chihiro ne La città incantata di Miyazaki.

Trasmettere la cultura di un paese a partire dal cibo può sembrare ambizioso, ma non per il Giappone. Con i suoi simbolismi e le sue ritualità, come il rigore richiesto all’aspirante itamae (o sushi chef), che può trascorrere anche due anni a lavare il riso prima di poter toccare il pesce – «dai la cera, togli la cera» in stile culinario – la food culture del Sol Levante fa del cibo il suo biglietto da visita. Ma non basta abbuffarsi a un all you can eat per dire di aver capito il washoku, la cucina giapponese.

L’influenza di Miyazaki

«Sia chi fa il sushi sia chi lo mangia deve rispettare molte regole», dice Micaela Giambanco, chef di una piccola izakaya nella periferia di Roma. Nel suo locale, Mikachan, che riproduce la tradizionale trattoria giapponese in cui bere e divertirsi, ha pochi coperti e prenotazioni fino a sei mesi, e accoglie clienti da tutto il mondo. La chef si è avvicinata al Giappone da giovanissima, e ha lavorato per trent’anni nei locali di sushi più rinomati di Roma. Nel frattempo, studiava e prendeva diplomi direttamente in Giappone.

«C’è chi dice “conosco la cucina giapponese”, poi mi trovo davanti persone che non sanno bene come mangiare il sushi», racconta. «È una cosa che ci tengo molto a spiegare: si possono usare anche le mani». Per la chef non solo chi cucina, ma anche chi mangia dovrebbe rispettare delle regole. «Ad esempio: si dovrebbe passare dal nigiri più chiaro e delicato al più saporito e più grasso». Come recita Ramen Girl, l’equilibrio ha le sue leggi: «Una ciotola di ramen contiene un intero universo: la vita dal mare, dalle montagne e dalla terra. Tutte queste vite insieme fanno il ramen. Tutte esistono in perfetta armonia».

Sentire il tobiko esplodere in bocca, la tempura di panko scrocchiare tra i denti o le papille gustative anestetizzarsi al pizzicore del wasabi, dà l’impressione di avere il Giappone a un palmo di mano. Ma della sua cultura si sa ancora poco. Molti ignorano che gli uramaki non sono nati in Giappone ma nella Little Tokyo di Los Angeles, in California, o che il ramen non va consumato mischiando gli ingredienti come un poké (che è un piatto hawaiano). Per questo, quando ha aperto Mikachan con suo marito, Giambanco ha deciso che sarebbe rimasta fedele alla tradizione. La dedizione con cui cucina per i suoi clienti è la stessa che riserva alla cura degli ingredienti, proprio come nello scambio di battute tra i due protagonisti de Le ricette della signora Toku: «Li dobbiamo accogliere nel modo giusto», dice la nonna, «i clienti vanno trattati bene» risponde Sentaro. E la nonna: «Io parlavo dei fagioli!».

Sushi chef e sommelier del sake, Giambanco pensa che i film di Hayao Miyazaki abbiano il potere di suscitare non solo domande su di sé e sul mondo, ma anche appetito. «Pensiamo a La città incantata, la scena di Chihiro che piange mi è rimasta impressa: piena di disperazione, sembra che gli onigiri che sta mangiando siano la sua unica salvezza». Miyazaki è l’autore di anime che ha più riferimenti al cibo, racconta, «per lui è un espediente per fare un’analisi culturale sulla modernità e sul consumismo». Per questo, da Mikachan ha organizzato degli eventi in cui mette a punto menù ispirati agli anime e li accompagna con la spiegazione di simbologie e significati: da Il ragazzo e l’airone, a Ponyo e La città incantata. In programma c’è anche un crossover tra Il castello di Cagliostro della serie di Lupin con Occhi di gatto e City hunter. «In Giappone è tutta una ritualità, i piatti scelti negli anime hanno un significato anche simbolico. È cultura pura».

Nei manga

Non solo sushi e anime, però. La cultura degli izakaya, che ha preso piede negli ultimi anni, è veicolata anche da altri prodotti editoriali. Lo racconta Asuka Ozumi, docente di lingua giapponese all’università di Torino e traduttrice ufficiale di alcune delle principali case editrici di manga. Si pensi a La taverna di mezzanotte, edita in Italia da Bao Publishing. Realizzata dal mangaka Abe Yaro, è stata poi riprodotta in una serie live action su Netflix: Midnight diners.

«Sia la serie sia il manga contribuiscono a veicolare nell’immaginario collettivo l’idea di una grande città piena di questi locali piccolissimi, dove si crea un rapporto stretto tra la clientela e chi cucina», dice Ozumi. «Questa figura diventa quasi un confidente. Una famiglia allargata che comprende anche gli altri clienti, che si incontrano ogni sera nel locale». La descrizione di ogni piatto cucinato dal proprietario fa venire l’acquolina in bocca.

«La narrativa pop sul Giappone è molto attenta ai dettagli», spiega, «specie quando si parla di cibo. È una componente centrale del manga. In quelli di Jiro Tanaiguchi, è un elemento fondamentale della vita dell’uomo reale, ma è ricorrente anche nelle opere di fiction». In Food Wars, la gente si sfida a colpi di cucina. In Dungeon food, manga di grande successo, si scoprono creature fantastiche e modi fantasiosi per cucinarle, «con una dovizia di particolari unica». «Il washoku viene percepito dai giapponesi come un elemento caratterizzante della loro cultura», conclude.

Una moda recente

Non è molto che si parla di Giappone e si mangia giapponese nelle città italiane. Quando Stefania Viti, giornalista e nipponista, scriveva di cultura gastronomica, del Giappone si sapeva poco e niente. «Ho scritto il primo libro L’arte del sushi, nel 2013, quando iniziava a essere anche una meta turistica, c’era ancora una conoscenza veramente limitata. In dieci anni si è trasformato tutto», dice. Quando Viti ha vissuto in Giappone, era inavvicinabile economicamente e istituzionalmente: «Parlavo con i funzionari giapponesi del consolato e mi chiedevano “ma secondo te ha senso fare le ramen-ya (ristorante di ramen) in Italia?”. Quando ho scritto nel 2017 Il libro del ramen, i libri italiani sul ramen non esistevano nemmeno».

In pochi anni è cambiato tutto, e il Giappone è entrato a pieno titolo nella cultura popolare italiana. Per Anna Specchio, docente di Lingua e letteratura giapponese all’Università di Torino e co-curatrice di NipPop: 10 anni di cultura giapponese in Italia, edito da Mimesis, grazie a narrativa, film, anime e manga la cultura nipponica si è fatta conoscere. «Due processi vanno di pari passo: si inflaziona l’immagine del paese, a volte mistificandola, ma se ne favorisce anche la conoscenza». Il cibo viene usato anche come strumento di nation branding, spiega Specchio, anche in virtù delle politiche del “Cool Japan” promosse dal governo. È in atto una sofisticata operazione di comunicazione enogastronomica per conquistare i cuori, le menti (e il palato) di tutto il mondo.

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