Se in un’alba d’estate un viaggiatore decidesse di attraversare la produzione letteraria italiana recente, dopo essersi lasciato alle spalle le intricate selve e le aiuole ben tornite del romanzo, arriverebbe a un guado, sulle rive di un lago palustre, nel cui centro sorge un’isola di alberi tropicali.

Getterebbe un’occhiata alla fedele mappa, ma farebbe fatica a orientarsi. L’isolotto non è segnato. La cartografia, anche quella immaginifica, si fonda sulla semplice regola (para) hegeliana per cui «Quel che non è disegnato non esiste».

Che fare a quel punto? Diventare il primo inventore di quel luogo, oppure ubbidire alla carta geografica, derubricando l’isola come fenomeno transitorio?

Oppure, dare a quella terra il proprio nome, essere il primo a impressionarla con la suola.

E così, dopo aver costruito alla bene e meglio un’imbarcazione di fortuna, ecco il nostro che veleggia lento sulle acque piatte della palude, alla volta dell’ignoto.

Il genere letterario per semplicità chiamato racconto è quell’isola. No, nel suo diario il viaggiatore non si dilungherà sulla fortuna di ciò che romanzo non è, sull’importanza che ha avuto la forma breve nella costruzione della nostra tradizione letteraria, sulla sua salute commerciale, né tanto meno sul suo status di moda, bensì sul suo aspetto più in luce, che è come dire: «Il modo e la maniera in cui il racconto racconta».

E anche se in molti, prima della sua partenza, lo hanno ammonito ricordandogli che per uno scrittore il racconto è premessa, o peggio palestra, di una forma più lunga, il viaggiatore tira dritto. Vuole vedere il mostro con i suoi occhi.

Stelle sparse

La vegetazione libraria dell’isola è folta e strana. Vi crescono piante secolari che fanno la guardia a germogli spuntati da poco.

Ed è proprio uno di questi a mostrare un titolo che da solo è un piccolo inno all’iridescenza. Si chiama Chiromantica medica (Nottetempo, 2022) e il suo autore è Alessio Mosca, agli esordi.

Un bestiario a suo modo, un alveare di esistenze squallide quanto esemplari, dove la parte remota dei nostri incubi atavici come la licantropia, l’ossessione sessuale, la necrofilia, si è innestata sul corpo della contemporaneità, nelle forme dei prodotti Ikea, nell’iconografia di Rocco Siffredi, nell’esistenza coatta e ammantata di sacro dell’uomo periferico.

Almeno due racconti della silloge di Mosca odorano di nuovo, pur dialogando con un segmento della narrazione breve italiana che da vent’anni si affaccia episodicamente nelle nostre librerie, cioè da quando Michele Mari diede alle stampe la prima edizione di Euridice aveva un cane (Bompiani,1993).

Due perle poliedriche: L’urlo di Pan e Cristo s'è fermato a Spinaceto. Entrambi sono il segno di un’evoluzione in atto nell’isola Racconto. Ogni libro di storie, se è davvero un libro di storie, è una costellazione, nel senso che le sue parti dialogano, si parlano anche quando sembrano non farlo, e costituiscono infine un disegno ulteriore.

Stelle sparse nel vuoto che sul fondale della notte possono essere congiunte dalla mano del lettore. È il teschio, il caro vecchio memento mori, la costellazione che si intravede tra le pagine di Mosca: devoluzione, fine della civiltà, estinzione (temi aggiornatissimi, non c'è che dire), ma anche possibilità, occasione, rivoluzione.

Come la Morte degli arcani scava nella terra per tirare fuori radici nuove, per smuovere l’humus e farlo tornare fertile, Mosca affonda le mani nella materia della lingua per trarne parabole, indizi di una primavera dell’umanità a venire, nonostante tutto o forse proprio grazie al tutto che ha innescato la nostra caduta.

Fiume in piena  

Un passo più in là, nel folto della vegetazione, ed ecco che il recente Le maestose rovine di Sferopoli (Einaudi, 2021), ancora di Michele Mari, sta lì a dimostrare che quel torrente sotterraneo di cui dicevamo prima è ormai emerso ed è diventato un fiume in piena.

Il collezionismo feticistico di Mari è quasi un genere a sé. Lo schema della sua ossessione assume di volta in volta le sembianze di un oggetto, può essere un giocattolo, un attrezzo, una reliquia o la forma di una smorfia. Una combinazione ai limiti del rabdomantico tra predestinazione, vocazione, ispirazione, è in grado di evocare in carne e ossa tutti i fantasmi del suo tenebroso Olimpo.

L’opera di Mari parrebbe insistere proprio nell’equilibrio tra intreccio e scandaglio. E se il primo è felice nei romanzi (chi scrive soffre di una predilezione maniacale per il suo Tutto il ferro della Torre Eiffel) il secondo è inesorabile nei racconti.

Nel caso particolare di questo autore si è parlato spesso di culto. Credo non sia un’esagerazione o una blandizia.

La capacità di farsi varco, divaricazione tra mondi, è una evidente prerogativa della sua produzione. Un salto carpiato all’indietro verso l’antropologia et voilà: sta scritto che la memorabilità, e quindi la sintesi, sono parte essenziale del potere di un rito.

Il racconto è anche questo.

Fitta vegetazione

L’esplorazione prosegue e le orchidee si affastellano. Carnosi, algidi, enigmatici come sibille sono i flash che compongono Solo storie di sesso di Francesco Pacifico (Nottetempo, 2022), esempio cristallino di come la forma breve abbia una vocazione specifica a frammentare e allo stesso tempo aumentare la realtà di cui narra. Se la sessualità intesa come motivo letterario chiama a gran voce una sua riformulazione aggiornata ai nostri tempi, è nei quadri di Pacifico che riesce a rifrangersi totalmente, ovvero nelle sue strutture paraboliche, dove l’attività umana per eccellenza, quella sessuale appunto, è lo spettro di ogni altra manifestazione: gioia, dolore, corruzione, perversione, nostalgia, alienazione.

Solo storie di sesso è una raccolta sinottica, un’enciclopedia germinale, che corre il serio rischio, suo malgrado, di lanciare una moda.

La vocazione all’affresco, alla combinazione vitale di figure che agiscono separatamente e insieme nello stesso spazio, fisico o immateriale che sia, è anche nella genesi di Le stelle vicine di Massimo Gezzi (Bollati Boringhieri, 2021), altro fiore strano della nostra esplorazione.

Dodici pannelli che concorrono a materializzare un’opera superiore, storie di provincia che hanno il sapore acre dell’universalità, della finitezza scontenta degli uomini senza patria e senza morale, che pure godono di una posa icastica, da santi in una chiesa.

In parte raccolta di racconti, in parte romanzo, Le stelle vicine sorge lì a un passo dall’organismo da cui questa particolare ibridazione parrebbe partita, il nostro Lucifero verde che avrebbe generato questo felice bosco di piante bastarde.

Lui, Il grande animale di Gabriele di Fronzo (Nottetempo, 2016).

Né raccolta di racconti né romanzo, quest’opera appare ancora oggi come un oggetto mutato e mutante, attraverso cui il suo autore ha messo in pratica tre delle regole auree del narrare breve: abolire il punto di vista univoco, spostare il fuoco dell’osservazione del mondo secondo un piano isterico, sondare la tenebra attraverso l’esempio.

Il romanzo come strumento di divagazione ci lascia il tempo necessario per rimandare il confronto tra noi e il senso. Il racconto no, non ama fare prigionieri, non concede alcun tempo, se non quello dello sparo alle nostre spalle.

Provate a immaginare allora un romanzo che si faccia carico di questa tensione. Fatto? Ecco, questo è Il grande animale, minima storia per frammenti di un tassidermista pazzo.

La foresta ormai si dirada. Il cielo notturno è di nuovo prossimo all’orizzonte, l’isola è stata esplorata solo in piccola parte. Fermiamoci qui a passare la notte.

L’istinto ci condurrebbe a guardare le stelle, ma non è detto che queste appaiano per orientarci, per consentire a noi che viaggiamo di ripararci in un significato compiuto e riconoscibile.

Non lo sappiamo, eppure viaggiamo. Facciamo come uno degli indimenticabili personaggi di Alessio Mosca, che al colmo della sua sconfitta, grida forte verso gli altri uomini: «Guardate il cielo! Guardate il cielo!».

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