Qualche giorno fa Riccardo Muti ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera. Le sue parole sono state molto discusse e hanno infastidito alcuni, che hanno assimilato l’intervista al lamento di un ottantenne incapace di adattarsi ai tempi. Questa reazione mi ha colpito.

Ultimamente c’è molta enfasi sulle generazioni, si sa. Le generazioni sono etichette e le etichette facilitano l’assunzione di identità e di punti di vista riconoscibili, in un’epoca in cui la riconoscibilità permette alle idee di viaggiare più veloci e in cui la rapidità di diffusione misura il successo di un pensiero.

La generalizzazione

Parliamo spesso di cosa può dire o sapere una persona più o meno giovane, come se davvero vivessimo all’interno di recinti generazionali invalicabili e molto caratterizzanti. E chi non vuole essere bloccato nel proprio recinto deve fare uno sforzo, rischiando di essere frainteso o di comunicare concetti poco agili che vengono presto messi da parte per mancanza di immediatezza.

Eppure a me la vita, anche la più lunga, sembra sempre così breve. Perciò i recinti delle generazioni mi sembrano sempre così effimeri. Si nasce, si muore, nel mezzo si prova a essere contenti, spesso si ha paura. La paura attraversa le epoche. Universale, forse eterna.

L’intervista a Muti non è, a mio avviso, il lamento di un uomo di una certa età ormai fuori dal mondo, che rifiuta lo smartphone e che si accartoccia parlando – incalzato – di #MeToo. È piuttosto l’intervista a un musicista, che in quanto tale oggi si trova in difficoltà. Non è un mondo per musicisti, infatti, al di là della superficie e delle nostre abitudini all’ascolto frequente e casuale in ogni luogo.

Il consumo musicale, le app, le cuffiette: tutta facciata. Si parla di tendenze, si ascoltano produzioni di varia qualità. Ma la musica, la sua natura più profonda, non è di questo tempo.

Eppure la musica è per il godimento di tutti, e chi la fa è potenzialmente molto amato, molto più amato di qualsiasi artista, perché vi è nella musica un’apparente prontezza di comunicazione che sembra tanto adatta al ventunesimo secolo. Un abbraccio istantaneo grande come l’universo. Il musicista si adora.

Ma nelle fasi che precedono la fruizione la musica non è per tutti, è segreta, fragile, per certi versi oscura e non per forza emette suono. È rinchiusa in un contenitore fatto di linee disposte secondo un criterio di ottimizzazione logistica: il pentagramma. E tutto questo solo per proteggere la vastità del suo spirito.

La ricerca di trasparenza

Non tutto è comprensibile e può essere svelato. In un mondo ossessionato dalla condivisione e dalla trasparenza, un musicista soffre. Cosa può mai mostrare di sé e della propria attività più nascosta, e soprattutto perché dovrebbe farlo, perché dovrebbe rendersi disponibile. La musica inizia con un gesto della mente che si svolge al di fuori del perimetro della condivisione.

Oggi la maggior parte dei nostri gesti si svolge nel perimetro della condivisione.

È un’epoca di chiacchiere, di tempo scomposto in piccoli frammenti. Viviamo di schegge, alcuni di noi anche molto bene. Si impara, in effetti, a vivere di mancanza di organicità. La musica però si fonda sulla sacralità del tempo. Non si permetterebbe mai di scomporlo a caso, basandosi su forze esterne, forze che non la riguardano. Non può lasciarsi andare ai deficit di attenzione, alle piccole demenze. La musica non è riducibile.

Per questo, calata nella contemporaneità più spiccia, mostra la fragilità del materiale al di fuori del suo elemento. Siamo noi a farle violenza. Per fortuna lei non muore, ma si rifugia in altre stanze e scaglia il telefono fuori dalla finestra.

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