Paul Khan, eclettico filosofo di Yale, ha fatto ricorso alla forma letteraria più abusata e sterile del nostro tempo, il memoir, per scrivere un libro sulla ricerca di un significato definitivo di tutta quanta l’esistenza, la questione più evasa e confusa del nostro tempo.

Testimony, pubblicato negli Stati Uniti da Cascade Books, è in superficie il racconto di un tradimento sessuale e della sua tardiva confessione, che fa deflagrare una guerra famigliare che potrebbe finire con la separazione, il perdono oppure la morte. Le persone coinvolte sono destinate a quest’ultima via. I protagonisti della vicenda sono i genitori di Kahn, nell’ultima parte della loro vita. 

La madre, nel suo 75° compleanno, decide, seguendo lo sconsiderato consiglio dell’analista, di confessare al marito un tradimento avvenuto decenni prima. In realtà, nemmeno l’autore può affermare con certezza che il fatto sia realmente accaduto, dal momento che la madre, per una serie di ragioni che occupano una parte periferica dell’indagine, non è necessariamente un testimone attendibile delle vicende che la riguardano. Ma in un certo senso, quasi paradossale, la veridicità del fatto scatenante non importa.

Quello che importa sono le sue devastanti conseguenze reali, lo strappo esistenziale che si è consumato fra i due,  l’abisso in cui precipitano vite rimaste orfane di quel vincolo di fiducia senza il quale l’impalcatura di senso del mondo collassa.    

La guerra dura cinque anni e si conclude con la morte della madre, per cause clinicamente non riconducibili puntualmente allo scontro, ma l’autore, che poi è anche figlio, conosce il legame sotterraneo fra amore e morte abbastanza da sapere che la sua recisione è impossibile e la sua obliterazione talvolta impraticabile nell’esperienza. Chi la tenta si espone al rischio di distruggere e autodistruggersi.

«I miei genitori erano bloccati in uno scontro che è iniziato con un libero atto di tradimento; si poteva alimentare soltanto attraverso una fede che li ha tenuti legati. Nessuno dei due poteva andarsene, ma nemmeno poteva smettere di litigare. Come l’idolatria ha senso soltanto in un mondo di credenti, così non ci può essere tradimento se non c’è un amore da tradire. Serve una qualche fede per vedere in un atto sessuale un tradimento che distrugge il mondo», scrive Kahn, facendo capire che la domanda a cui intende rispondere è più radicale di tutte le ispezioni psicologiche che si potrebbero fare intorno al trauma del tradimento. Questa è la formulazione stringata: «Possiamo amare in un mondo che è spacciato quanto tutti noi siamo spacciati?». 

Siamo dalle parti del famoso bivio descritto da Platone nel Fedone per attraversare il pelago della vita alla ricerca di un significato. Le due alternative: aggrapparsi al più persuasivo degli argomenti umani e tentare una pericolosa traversata, incerti come su una zattera fra le onde, oppure affidarsi alla «rivelata parola di un dio». 

Sotto la superficie, il tema di Testimony è dunque il destino della promessa dell’amore. Un altro modo per dire la stessa cosa è: Kahn si pone il problema della salvezza degli esseri umani dentro una storia che parla quasi esclusivamente di tormento, dolore, delusione, caducità, scontro e infine morte. 

Un soggetto strano

Kahn è un teorico del diritto costituzionale che si è occupato soprattutto della fondazione del concetto di legittimità e degli immaginari sociali, riflessioni che ha affrontato principalmente con gli strumenti della fenomenologia. È nell’esperienza che si coglie la legittimità della legge, non nella sua costruzione teorica, sostiene Kahn, che ha messo al centro della sua riflessione il concetto di “sacrificio”, cosa che ha indotto alcuni a collocarlo in un punto non meglio precisato sulla via che congiunge René Girad e Giorgio Agamben.

Cosa c’entra tutto questo con il racconto del tradimento della madre e della rabbia pseudo-omicida del padre? C’entra moltissimo, perché Kahn nella sua ricerca è arrivato alla convinzione che le categorie del liberalismo moderno siano inadeguate per spiegare il senso della legge: il liberalismo deve essere «messo al proprio posto», come dice il titolo di uno dei suoi libri più noti.

In modo analogo, le categorie antropologiche della modernità sono inadeguate per spiegare i meccanismi che hanno portato a una tragedia famigliare che in fondo non è che la rappresentazione di un atto – un atto fondamentale, decisivo – dell’intera vicenda umana. Dove la modernità parla di autonomia, libertà, desiderio, decisione, volontà, trauma, mente e self, Kahn parla di amore, sacrificio, dono, infinito, lutto, mistero, cuore e anima. È con questo bagaglio di concetti inattuali che Kahn cerca di trasformare la «rabbia di mio padre nei miei pensieri», cioè raccogliere il «dono finale che devo presentare». Non deve sfuggire perciò il peso del titolo del libro, laddove la testimonianza è legata anche etimologicamente al martirio. Testimony non è resoconto ma olocausto. 

Entrambi i genitori erano ebrei dell’Europa orientale trasferiti a New York prima della guerra e non avrebbero potuto essere tra loro più lontani per carattere e temperamento. Lei parlava continuamente, con chiunque, di qualunque argomento; lui era perfettamente in grado di esprimersi, ma non avea alcun interesse a farlo. La vita di lei è stata un costante e spesso infruttuoso dialogo, quella di lui si è sviluppata per successivi stadi di isolamento. 

«Ascoltare mia madre era l’equivalente verbale di camminare a Times Square: alla fine, tutti finiscono per passarci», scrive Kahn, immaginando che quel profondo, primordiale bisogno di parlare fosse «iniziato nel breve periodo tra il momento in cui è arrivata a New York e quello in cui ha imparato l’inglese».

Avevano bisogno l’uno dell’altro per trovare una qualche forma di equilibrio dentro una realtà ostile. «Senza di lei, lui avrebbe potuto ritirarsi dal mondo. Senza di lui, lei sarebbe stata completamente persa nel mondo». E in effetti lui dal mondo aveva provato a ritirarsi, lasciando la vita suburbana e borghese da colletto bianco riuscito e infelice per acquistare una proprietà remota sulle rive di un lago remoto, dove si è dedicato alla costruzione di barche e alla distruzione di ogni rapporto umano. 

Per lei che traeva il suo desiderio di vita dalle infinite occasioni di dialogo che la routine delle villette e dei backyard offriva, lei che non guardava mai la televisione perché l’impossibilità di interagire la irritava, è stato un colpo mortale. È in quel moto di ribellione e frustrazione per i desideri del marito, così poco sincronizzati con i suoi, che è maturata l’idea di un tradimento che non ha nulla della spensieratezza di una tresca estiva e tutto del disperato bisogno di essere allo stesso tempo amati e autonomi.

Per l’autore è questa la madre di tutte le tensioni insanabili della modernità: «Possiamo avere sia l’autonomia – la virtù moderna per antonomasia – sia l’amore – il valore più tradizionale di tutti?».


Confessione

La confessione è lo strumento con cui lei immagina di poter sciogliere il nodo, una questione atavica e agostiniana che Kahn esplora con premoderna perizia. «La confessione in sé comporta una nuova definizione della libertà. Confessando, immaginiamo la possibilità di ricostruire noi stessi. Nella confessione è implicita la fede nella possibilità di un nuovo inizio. La narrazione della confessione è quella dell’apparizione della libertà di fronte a un Dio onnipotente».

Nella sua versione moderna e secolarizzata, «la confessione è il punto in cui la libertà e l’amore si fronteggiano; le sole confessioni che contano sono quelle offerte a chi amiamo». Che cosa cercava lei, che cosa cercano tutti, da una confessione di questo genere? «Mia madre voleva dalla sua confessione ciò che le persone hanno sempre voluto: essere investita in un senso definitivo dell’universo. Voleva che qualcuno le dicesse che non era sola e che la sua vita era legata a un ordine più grande. Che era amata».

Il bisogno di un ordine superiore – l’ordine dell’amore – che emerge nell’atto rischioso e, per così dire, estremo della confessione si scontra però con la sua versione impoverita, quella psicanalitica, che non può spingersi fino al perdono e all’assoluzione, ma è costretta a fermarsi all’accettazione. Accettazione di sé, innanzitutto.

Nelle pagine folgoranti in cui il filosofo s’addentra nella distinzione fra confessione e terapia si sente tutto il suo debito verso la visione schmittiana secondo cui la trama della modernità è fatta di risposte secolarizzate a problemi religiosi. La funzione della parola è centrale nel rapporto confessione-analisi. 

«C’è una ragione per cui una cultura secolarizzata cresciuta all’ombra della confessione religiosa ha un particolare interesse nella “cura attraverso la parola”», scrive Kahn. «L’analista offre la stessa promessa del sacerdote: perdono e riconoscimento. Si tratta, naturalmente, di ciò che vogliamo dall’amore. Il sacerdote, l’analista e l’amante si occupano della cura dell’anima. Tutti promettono l’accettazione. Oggi non siamo del tutto sicuri se possiamo credere in qualcuno di questi. Tutti richiedono la nostra fede, ciascuno a suo modo. La fede, tuttavia, è merce rara. Senza la fede i preti diventano assistenti sociali e gli analisti passano dalla pratica della confessione alla prescrizione di farmaci. I medicinali non possono prendere il posto del riconoscimento. Al massimo possono sedare la domanda. Soltanto l’amore promette la possibilità di riconoscimento e libertà»

Ciò che trasforma il dramma della madre una tragedia è che la confessione finisce per produrre l’opposto di ciò che intendeva suscitare. Odio in luogo di amore, vendetta in luogo di misericordia, rifiuto in luogo di accoglienza.

Invocava un perdono che il marito non era in grado di concepire. Il perdono, semplicemente, non è una categoria che trovava spazio nella sua anima, e del resto è raro che il perdono possa fare capolino in un animo ostinato ed egoriferito come quello che Kahn descrive in pagine e pagine di micidiale sincerità. Bisogna almeno rendersi conto dell’esistenza dell’altro per poterlo perdonare. 

La sua prima reazione davanti al figlio dopo la confessione del tradimento è: «Sono troppo vecchio per trovare qualcuna con cui scopare». «Nella sua mente – scrive Kahn – c’era la vendetta, non il perdono. Il perdono non avrebbe mai abitato la sua mente». L’unica alternativa possibile era la guerra, e «le guerre non finiscono con il perdono ma con la sconfitta. Nessuno dei miei genitori, tuttavia, era potente a sufficienza per sconfiggere l’altro. Potevano soltanto combattere fino alla fine». 

Nella notte perpetua in cui padre è avvolto la sola stella polare era la giustizia, esclusivamente intesa nella sua forma retributiva e limitata ai torti degli altri, una concezione simile a quella a cui si appellano i bambini quando gridano “non è giusto” e non c’è verso che i ripetuti “è per il tuo bene” dei genitori diano loro qualche soddisfazione. Questo tipo di giustizia difficilmente può accordarsi con il perdono. Il perdono, scrive Kahn, «è più vicino alla misericordia che alla giustizia. C’è una verità nel dire “perdona il peccatore, non il peccato”».

Rivoluzione

Quella raccontata in Testimony è anche la storia del mondo di ieri, quello della tradizione e dell’ordine costituito, che incontra la rivoluzione degli anni Sessanta. Nella sua grande varietà di espressioni, forme espressive e conseguenze sociali, la rivoluzione ha organizzato sé stessa attorno a una massima di riferimento che Kahn sintetizza così: «Il solo valore che davvero contava era la libera creazione del proprio io».

Entrambi i genitori, nel percorso tortuoso di costruzione dell’identità che assume un tratto del tutto particolare per gli ebrei emigrati, si erano lanciati nella libera creazione del proprio io.

I due progetti avevo dato risultati fra molto diversi, ma questo non significava che uno fosse più titolato dell’altro a mettersi le mostrine del rivoluzionario autentico: «Mio padre aveva abbandonato la giacca e la cravatta per la tuta da operaio. Lei aveva abbandonato la monogamia. Il che era la lezione più importante degli anni Sessanta: la libertà di reinventare se stessi oppure il sesso libero? Questi due messaggi erano legati fra loro così tanto che la pillola poteva diventare il simbolo dell’intera epoca. Mio padre avrebbe indossato abiti da lavoro e lavorato con le mani – lavoro onesto. Mia madre non avrebbe indossato nulla – sesso onesto», scrive Kahn, che, come si è detto, non è solo il muto stenografo di fatti che lo riguardano per ragioni genealogiche e storiche. È anche un arbitro chiamato a dare giudizi.

Il suo giudizio sull’autocreazione, sintesi rivoluzionaria dei genitori poi finita frantumata nel furore apocalittico della vecchiaia, è senza appello: «La mia vita è stata sempre orientata nell’opposizione all’idea dell’autocreazione. Al centro di tutto quello che faccio e che penso c’è il fatto dell’amore. Ho discusso e lottato contro l’idea che le nostre vite assumano un significato attraverso le decisioni che prendiamo. Anche quando mettiamo in queste decisioni tutte le capacità di previsione di cui siamo capaci, non è abbastanza. Ragione e deliberazione non sono le fonti di una vita dotata di significato. Il significato esplode nella vita dall’esterno. Arriva a noi come un atto di grazia. Ci afferra e dice a noi stessi ciò che siamo a prescindere da quello che possiamo aver pensato o scelto».

Kahn mette l’autenticità della chiamata in opposizione alla recita della rivoluzione autocreatrice: «I miei genitori stavano recitando. Stavano esplorando, non erano “chiamati”. L’amore è tutto ciò a cui possiamo aggrapparci e ci arriva sempre come arriva a un bambino appena nato. Arriva dal di fuori del nostro mondo ordinario, ma ci dice in modo completo e totale ciò che siamo. Questa visione mi dell’amore mi rende una persona religiosa, anche se non ho nessun credo religioso convenzionale. Sono troppo il figlio di mio padre per questo genere di cose. Ma so di cosa parlavano i santi e i profeti: il bisogno di grazia nella nostra vita e l’assoluta solitudine della morte senza quella grazia».

Ecco illuminato ancora più chiaramente il senso della confessione. Invocava un atto di grazia, non solo l’affermazione del proprio io autocostruito: «Mia madre ha sentito questo bisogno quando è arrivata a 75 anni, ma allora era troppo tardi». 

La morte

Lei cercava confusamente l’amore, lui perseguiva ostinatamente la giustizia. Entrambi si sono trovati a dover venire a patti con ciò che sarebbe scaturito da questa combinazione di desideri umanamente impossibile da conciliare, la morte. Che però, seccatura suprema, è l’unica cosa con cui non si può davvero a venire a patti prima di sperimentarla. 

Fino alla confessione, le due patologie fondamentali della vita del padre erano in qualche modo rimaste separate. Da una parte il senso dell’ingiustizia del mondo; dall’altra il senso dell’incombenza della morte. L’idea che tutti gli altri cospirassero per tendergli un qualche tranello, per «fotterlo», come dice lui, lo aveva sempre accompagnato, mentre durante la guerra aveva imparato che «il corpo è una condanna a morte».

Aveva parlato pochissimo della sua esperienza al fronte dopo lo sbarco in Normandia, ma era chiaro che quell’esperienza non lo aveva solo traumatizzato – questione clinica – ma aveva introdotto in lui l’inclinazione a vedere ogni dimensione dell’esistenza come gravata da un incombente senso di finitudine. Un senso incombente e inaccettabile, dunque un’altra variante sul tema dell’ingiustizia. 

Scrive Kahn: «La scienza medica ci ha dato gli ospedali; la scienza sociologica ci ha dato gli hospice. Il problema della morte, tuttavia, la scienza non lo può risolvere. Al massimo, la scienza può rimandare la morte. Non può aiutarci ad accettarla nella nostra vita». 

«Quello che è al di là della capacità di ogni istituzione è proprio ciò che più vogliamo: rendere possibile un amore che possa trascendere la morte. Per quello, siamo soli». Negli ultimi, terribili anni della sua vita, tormentata dalla guerra con il marito e segnata da una malattia che non era interamente separabile dal campo di battaglia, la madre di Kahn affronta il «rompicapo» su cui tutta l’umanità si affanna: «Nel profondo, ciascuno di noi crede che la morte non sia una parte della vita. Siamo fatti per l’universo eterno, non per questo corpo corruttibile», scrive l’autore, che in pagine memorabili e dolorosissime descrive gli ultimi giorni di lei su questa terra e soprattutto i giorni successivi al trapasso, quelli del disorientamento. Disorientamento per cosa? Per il dolore della scomparsa, certo. Ma anche per l’assenza di rituali adeguati alla circostanza. Meglio ancora: i rituali attorno alla morte abbondano, ma hanno divorziato dalla fede che dava loro un senso, e sono diventati procedure, protocolli.

Dapprima sono protocolli sanitari per disporre di ciò che rimane nell’ambito ospedaliero. Sono guidati da persone in camice, surrogato sanitario della casula. Poi scattano i protocolli dell’industria funeraria per le esequie. Questo passaggio, scrive Kahn, ha cambiato il rapporto con l’assenza e con il dolore associato a essa: «Sentire un’assenza è sentire il dolore della memoria di un mondo che è perduto e non può essere recuperato. Questo stato psicologico di dolore oggi sostituisce la tradizionale fede nella riunione nell’aldilà. Il rituale è stato inventato per lenire il dolore, mentre oggi i rituali sono occasioni di dolore». 

Nel rilevare l’impasse di un mondo che non riesce a soffocare il desiderio di infinito e balbetta formule inadeguate di fronte all’inevitabile finitezza, Kahn si proclama cristiano. Di tipo non convenzionale e non confessionale, ma tuttavia cristiano, cioè legato alla promessa della resurrezione della carne. Caro cardo salutis, la carne è il cardine della salvezza, scriveva Tertulliano, e l’autore americano nella sua testimonianza sembra seguire quel solco.

«Il cristianesimo ha offerto la redenzione personale, e noi in occidente abbiamo gentilmente accettato l’offerta. Non dovevamo più rappresentare il corpo come un peso sul libero pensiero. La ragione non era più il valore più alto. È stato scalzato dall’amore. Al contrario della conoscenza, l’amore è sempre nel corpo. Il rompicapo della relazione fra il corpo e l’amore, e di entrambi con la morte, è al cuore del mistero di Cristo», scrive Kahn.

E ancora: «“Chi crede in me non morirà in eterno”. Chi può credere a una cosa del genere oggi? La nostra età secolarizzata non è ritornata alla fiducia premoderna nell’immortalità. Invece, siamo vincolati al corpo e, senza fede, siamo vincolati alla morte. Per la maggior parte, viviamo come cristiani, desiderando l’immortalità del corpo, ma senza crederci. Vogliamo la promessa, ma abbiamo perso la fede che la rendeva possibile». 

La logorante guerra fra i genitori, lo scontro fra una speranza frustrata e una disperazione in campo aperto, pone dunque una questione vertiginosa: se si possa o meno vivere con la consapevolezza della morte. Kahn, che è un infaticabile cercatore de le mot juste, passa pagine e pagine a ricercare, riscrivere, editare pensieri per cavare formulazioni adeguate. Una delle più felici è questa: «La croce nella mia vita non è che esista l’ingiustizia in un mondo buono, ma che questo mondo buono finirà».

Testimony è un libro cosmico, si muove nella dimensione dell’universale, affronta senza rete protettiva le questioni ineludibili dell’esperienza umana, e perciò incarna l’opposto di ciò che normalmente promette un memoir: una storia particolare, irripetibile, preferibilmente esotica, straordinaria.

Nei momenti di sconforto viene da pensare che un libro del genere non verrà mai tradotto in Italia, dove il massimo della profondità concessa dall’editoria commerciale è Massimo Recalcati. Ma Kahn dice che nella lotta fra fede e dubbio occorre almeno provare ad avere fede in qualcosa, e conviene pascalianamente scommettere che lo sconforto non prevarrà..

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