Correva il 1967, ero entrato da poco alla Normale di Pisa; un assistente mi sconsigliò di seguire le lezioni tenute da un certo docente perché erano “svirilizzanti”. Quel docente era omosessuale, alla Scuola tutti lo sapevano ma lui credeva che fosse un segreto. Non frequentai le sue lezioni il primo anno per paura di scoprirmi, ma ci andai il secondo e ne rimasi così affascinato che diventò il mio vero maestro. La sua palese infelicità privata mi spinse, per contrasto, a fare il mio coming out a ventun anni; nel frattempo quell’assistente era diventato professore a sua volta, tra noi ci furono scintille ma alla fine l’ho apprezzato come studioso e gli ho voluto bene. Maschilista ma di gran cuore ed enormemente simpatico. L’ambiente era elitario ed era sopraggiunto il Sessantotto, il primo amico a cui feci la gran confessione mi rispose «Lo dici per vantarti» – altri reagirono peggio, qualcuno raffreddò l’amicizia. Ma c’era il Fuori! di Angelo Pezzana, leggevo Lambda: al Partito comunista qualcuno non vide di buon occhio un mio piccolo incarico sostenendo che «La mia condizione mi rendeva ricattabile». Insomma tempi duri ma promettenti, là dove circolava la cultura.

Cambiare la cultura

In ambienti culturalmente meno attrezzati i pregiudizi erano ancora forti, bastava esplorare un po’ in giro (o provare a spiegarsi in famiglia) e ti piovevano addosso gli schiaffi, materiali o metaforici. Mia madre poverina temeva che non avrei potuto fare carriera, dato che «ero così»; un dirigente dell’Arci si dichiarò contento che io fossi «principalmente attivo» nei rapporti sessuali; sapevo di compagni militanti brutalmente picchiati, o cacciati di casa.

Ora mi sembra che le cose si siano polarizzate. Da una parte i progressi sono stati notevoli: ci sono organizzazioni di genitori amorevoli, la politica non osa più obiettare, la religione lascia spiragli, le coppie gay sono diventate merce comune sui media e nella vita, gli omofobi sono pubblicamente invitati a vergognarsi. Dall’altra parte, però, le resistenze si sono fatte più accanite: si invocano improbabili “leggi di natura”, si temono ancor più improbabili “contagi”, ci si sente privati di una primazia secolare, si è costretti a nascondere l’ostilità che quindi diventa più violenta quando esplode, addirittura si parla di “maggioranza oppressa”, ogni libera gayness viene interpretata come provocazione (“te lo sbattono in faccia”).

Si è passati dalla clandestinità carbonara, con tanto di numi tutelari (Leonardo da Vinci, Shakespeare, Federico II di Prussia) e l’evocazione di misteriose “lobby gay”, a un’esemplarità rivendicativa, da sostenere mediante un sistema di “quote”. Una legge in principio ragionevole come il Ddl Zan si trasforma in terreno di scontro, bandiera da sventolare o vilipendere, con irrigidimenti e ripicche e improvvide generalizzazioni da una parte e dall’altra. Una legge è un atto necessario ma non sufficiente: quel che serve in profondità è un cambiamento di cultura, e perché questo avvenga è necessario che entrambe le parti siano disposte a un minimo di autoanalisi e di autocritica, e a imparare dall’avversario.

Carnefici?

Comincio da me e dalla mia tipologia, sapendo che di omosessualità bisognerebbe sempre parlare al plurale: io soffro di una forma subdola di misoginia, che consiste nel vivere come se le donne non esistessero in quanto donne (ce n’è stata una all’origine ed è bastata); ma credo si possa considerare misogina anche l’esasperazione caricaturale e stereotipa del femminile da parte di un altro tipo di omosessuali. Ancora: prima di conoscerne intimamente uno ho creduto per anni che i bisessuali fossero gay che non avevano il coraggio di ammetterlo, dunque ero bifobico – quanto ai transessuali M to F, mi scombussolavano troppo: scompaginavano il mio piccolo eroico presepe di culturisti e sollevatori di pesi, inserivano una scintilla di femminile dove io credevo di avere eretto pareti invalicabili – negavo scioccamente la loro identità, mi dicevo che forse erano preda di un falso sillogismo (“a me piacciono gli uomini / alle donne piacciono gli uomini / dunque io sono una donna”). Quindi ero transfobico (o transmisogino) e forse pure omofobo, perché mi davano fastidio certe forme chiassose di orgoglio.

Scrivendo romanzi, non posso sentirmi orgoglioso del fatto di esser portato psicologicamente a rimuovere oltre metà del genere umano; ma non mi piace nemmeno sentirmi vittima. Quando insegnavo a Cosenza, mi trovai a essere decisivo in un concorso interno per un posto di bidello (si chiamavano ancora così); un bel ragazzo, avvertito delle mie preferenze, mi si presentò a casa la sera prima degli scritti e mi propose uno scambio – non ne feci nulla, perché non capivo in una situazione del genere chi sarebbe stato la vittima e chi lo sfruttatore. Si deve andare cauti con le intersezioni di potere: se un “caporale” gay molesta un bracciante nero, e quello reagisce con un pugno in faccia, chi sarà l’aggressore? Da quando il gossip è diventato un lavoro, si è dato il caso di un influencer (mi pare si facesse chiamare Iconize) che ha simulato di aver subito un’aggressione omofoba per ottenere visibilità in tv.

Né vittime né carnefici, ma individui singoli i cui comportamenti devono essere giudicati con discrezione e comprensione, caso per caso; anche quelli dell’altra parte, i difensori della “normalità sessuale”, dovrebbero farsi il loro bravo esame di coscienza, analizzare da dove vengono le loro paure – solo così, quando poi si trovano davanti a qualche laico progetto che dovrebbe valere per tutti, eviterebbero di opporsi visceralmente o (peggio) trincerarsi dietro giustificazioni un po’ vili come «Non è questo il momento» o «Con tutte le cose più importanti che ci sono da fare».

Pregiudizi da smantellare

Sul piano legislativo e giudiziario si spera che il tema venga trattato con equilibrio, salvaguardando alcune ovvietà (nessuno può essere condannato senza prove; le aggravanti e le attenuanti costituiscono un criterio utile e giusto nei processi; non basta considerarsi maschio, o femmina, per esserlo; la chirurgia non può prestarsi a capricci passeggeri; anche l’eterosessualità è un “orientamento sessuale”; esprimere un’opinione, o comporre una canzone o girare un film, non significa discriminare). Ma al di là di questi due piani di convivenza civile, ci sono pregiudizi privati da smantellare, da una parte e dall’altra. Bianca Berlinguer si è mostrata colpita (piacevolmente) quando una giovane lesbica le ha detto che a trattarla male è stata più la toscanissima madre che il papà marocchino; le tradizioni etniche talvolta contano meno delle nevrosi personali. Chissà quella madre che fantasma si è fatta della “figlia destinata a essere trattata come una troia”, quanto ha messo dei propri terrori nel proiettarsi un’immagine di figlia facilmente plagiabile.

Imparare dagli avversari, si diceva: io devo imparare dai difensori dei ruoli tradizionali che «Le istituzioni sono commoventi», come diceva Pasolini; e che privilegiare sempre la legge del desiderio può a volte impedirci di crescere. Però io forse posso dire ai padri eterosessuali che avere un figlio gay non scalfisce in nulla la loro virilità; e magari ai maschi troppo fieri del loro “possedere” le donne che anche accogliendo nel proprio corpo una parte delicata e fallibile del corpo del partner si può guidare e dominare un rapporto sessuale. Siamo tutti un gran guazzabuglio: ho conosciuto coppie gay in cui uno dei due ci teneva a chiarire che gli spermatozoi per la maternità surrogata li aveva messi lui – e io mi sentivo umiliato quando una bella donna con un seno prosperoso mi garantiva che i miei sguardi fissi proprio lì non la disturbavano perché mi considerava “inoffensivo”; ma come? Avrei voluto fornirle dimostrazione in loco del contrario, o almeno elencarle le (poche) donne con cui mi era capitato di fare sesso. Invece di urlare e di darci a vicenda dei distruttori o frenatori della società, proviamo a ridere di noi stessi.

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