Ritratti, miniature, acheropite: scoprire i volti di Cristo

Tra la seconda metà del V secolo e la fine del VI il paganesimo sta ormai languendo dappertutto. In una provincia dell’impero bizantino, forse in Siria o da qualche parte dell’attuale Turchia, un letterato pagano attratto dal cristianesimo decide di scrivere un romanzo, la Narrazione dei fatti persiani, sulla nascita di Cristo, un argomento che conosce bene dall’inizio del vangelo di Matteo e da molti altri testi. Anche lui si concentra su un particolare narrato soltanto dal primo vangelo canonico, che pure è molto sobrio: il viaggio dei misteriosi magi venuti dall’oriente. È questo lo scenario del suo testo, poco conosciuto, che a prima vista sembra una delle tantissime variazioni letterarie e artistiche sulla natività del Messia e sulla storia favolosa ed enigmatica di quei viaggiatori guidati da una stella. Nei presepi di oggi, molto amati soprattutto dai bambini, le statuette dei magi vengono collocate ai margini della ricostruzione natalizia: figurine che con il trascorrere dei giorni vengono avvicinate sempre più alla capanna dove è nato Gesù, in modo da rappresentarne il lungo viaggio. Il ritratto Secondo Otto Bardenhewer è chiara la «finalità dogmatico-apologetica» di questo anonimo testo bizantino. Protagonista è un ufficiale filocristiano che anima un dibattito tra cristiani, giudei, pagani. Un ruolo centrale è rivestito da un mago persiano e la tesi – sullo sfondo dell’evangelista Matteo e di molti testi cristiani antichi – è che anche i pagani, rappresentati appunto dai magi, hanno riconosciuto in Gesù il Messia atteso dal popolo ebraico. Finalmente i viaggiatori arrivano a Betlemme e trovano un bambino di due anni seduto per terra, che «somigliava molto a sua madre. Ella aveva mani molto lunghe e un corpo delicato; la sua carnagione era del colore del grano. Il viso era tondeggiante e i capelli erano tenuti legati. Poiché avevamo con noi un giovane pittore molto abile, portammo le immagini di entrambi nel nostro paese». Di ritorno in Persia, i magi le offrono al «tempio principale» con la dedica «a Zeus Mithra, il grande Dio, re Gesù», a nome dell’impero persiano. Molto più tardi, in un manoscritto bizantino dell’XI secolo oggi conservato a Gerusalemme, la scena centrale del racconto è accuratamente raffigurata, con qualche variazione rispetto al testo. Gesù non è seduto a terra, ma tenuto in braccio da sua madre ed entrambi guardano il pittore. Questi, seduto su uno sgabello, ha in mano un’icona di Maria e del bambino, destinata al tempio persiano ma identica a quelle reali, molto diffuse anche in occidente. [Missing Caption][Missing Credit] Le immagini antiche Da tempo uno specialista dell’arte medievale aveva attirato l’attenzione sull’importanza di questo apocrifo per l’iconografia. Ora il testo bizantino è uno dei tasselli minori, tra i più suggestivi e colorati, di una sua nuova indagine (Michele Bacci, I volti di Cristo, Carocci) sulle «immagini della santità tra Oriente e Occidente» che si estende anche a tradizioni diverse – buddiste, dell’antica India e islamiche – con molte illustrazioni. Il racconto illustrato da questa miniatura, unica nel suo genere, rientra nelle leggende che tra il V e il VI secolo hanno al centro antiche immagini del volto di Gesù. Nella tradizione cristiana è una novità, e per superare la diffidenza nei confronti della possibilità di rappresentare il divino diffusa nei primi secoli, diversi testi sottolineano che non si tratta di realizzazioni umane, bensì di immagini “non fatte da mano” umana. Dette “acheropite” dal termine greco, queste rappresentazioni si affermano grazie a racconti all’inizio orientali che s’intersecano tra loro. Secondo un celebre apocrifo siriaco del V secolo, lo stesso Cristo avrebbe scritto una lettera a re Abgar di Edessa (oggi Urfa, nella Turchia ai confini con la Siria), portata da un suo discepolo, Addai, con l’annuncio della guarigione al sovrano malato. [Missing Caption][Missing Credit] Abgar manda poi un servo perché ritragga il volto di Cristo. «Il tuo sembiante cambia per me tutti i giorni» dice l’inviato, e allora Gesù, preso un «vestito», vi imprime la sua immagine. La leggenda è legata alle origini del cristianesimo siriaco, nei primi decenni del IV secolo è conosciuta dallo storico ecclesiastico Eusebio di Cesarea e s’incrocia con altre tradizioni che si addensano attorno alla figura della Veronica e all’enigmatica immagine della Sindone ora a Torino, attestata come tale soltanto nel tardo medioevo. Nel VI secolo a Edessa si venerava un’immagine del volto di Cristo apparsa a una donna incredula e impressa in modo miracoloso su un tessuto. Detta mandýlion (in greco “pezzo di tessuto”), l’icona è utilizzata dall’imperatore Eraclio come sostegno nelle vittoriose campagne militari contro i persiani che nel 629 gli permettono di riportare a Gerusalemme la reliquia della croce. Nel 944 il mandýlion viene trasferito a Costantinopoli, nella cappella privata dei sovrani bizantini, mentre il “santo volto” si diffonde molto anche in occidente, dipinto da artisti come Beato Angelico, del quale l’impressionante Cristo della cattedrale di Livorno, tempera eseguita tra il 1447 e il 1450, è fino al 25 gennaio nella mostra di Firenze. L’artista che fa propaganda al paradiso. La luminosa pittura di Beato Angelico Veronica Nel ciclo apocrifo sulla figura di Pilato, il prefetto romano che condanna Gesù a morte, compare Veronica, nome (forse derivato da “vera icona”) assegnato dalla leggenda alla donna guarita da Cristo perché da dodici anni aveva «perdite di sangue», come si legge in tutti e tre i vangeli sinottici (Matteo, Marco e Luca). Sarebbe stata lei, secondo questi testi, ad asciugare il viso di Cristo con un panno sul quale rimane impresso il suo volto che guarirà l’imperatore Tiberio, in una replica evidente della leggenda di Abgar. L’immagine miracolosa sarebbe stata portata a Roma sin dall’VIII secolo ed è al centro dell’anno santo inventato nel 1300, sull’onda della pressione popolare, da papa Bonifacio VIII. Tanto che in una pergamena toscana della bolla d’indizione è il volto tante volte riprodotto della “Santa Veronica” a sovrastarne il testo affiancato dagli apostoli Pietro e Paolo. A questa popolarissima tradizione leggendaria si riferisce con cenno sobrio ed evocativo, nella sceneggiatura del film mai realizzato su Gesù (edita da Iperborea), anche il grandissimo regista danese Carl Theodor Dreyer. «Guarda com’è sudato. Posso asciugargli il viso?» dice la donna. «Poiché la donna ha un aspetto piacevole e benevolo, il soldato acconsente» commenta Dreyer. Com’era il volto di Cristo? L’esitazione dell’inviato di Abgar è declinata variamente anche dalle riletture contemporanee, in romanzi e film. Se nel Ben Hur di William Wyler il volto di Gesù non è mai rappresentato, nel best seller del 1880 (Ben-Hur. A Tale of the Christ, di Lew Wallace) che ha ispirato il film, i magi vedono invece che «il bambino era come tutti gli altri neonati», e a sua volta il piccolo Gesù fissa, «più che loro, la fiamma della lanterna» che illumina la scena. Dotti, astrologi e sapienti a Betlemme: la storia dei tre Re Magi, che forse erano dodici