Ritrovarsi vent’anni dopo: la classe del 2005

In circostanze diverse non mi sarei mai presentata. Fosse stata un»altra situazione - una situazione normale, ordinaria - avrei fatto finta di niente, ma non questa volta. Ho perfino indossato la mia camicia migliore, quella delle riunioni importanti di lavoro, e questo mi fa sentire una persona tutto sommato ok. Non la migliore, certo, ma neanche la peggiore, come quelli che decideranno di non farsi vedere. Quando arrivo al locale ci sono solamente tre persone a tenere un tavolo da venti. È uno spazio rustico, con tavolacci di legno e un bancone di mattoncini rossi su cui stanno esposti loghi di birre artigianali che nessuno ha mai sentito nominare. Valentina ci accoglie uno alla volta, ci abbraccia come fosse il suo compleanno e quella la sua casa. L’idea di questa riunione è stata sua. Ci ha messi insieme in un gruppo WhatsApp e ha gestito il flusso di informazioni, quando incontrarci, dove farlo. Alla fine siamo rimasti d’accordo per l’inizio di settembre. I nostri corpi sono abbronzati come tutte le volte che ci siamo rivisti dopo l’estate, il primo giorno di scuola, solo che adesso sono passati vent’anni dall’ultima volta. Non solo trivial: il romanzo sta prendendo la rincorsa? Toni arriva dalla cucina asciugandosi le mani al mesale sporco di farina e impasto. Al liceo era stato con noi solo fino al terzo anno, poi era stato mandato in un’altra scuola perché qualcuno lo aveva visto nei bagni dei maschi con della cocaina. Ma era stata una fase. Mentre ci distribuisce i menù, Valentina gli chiede di portarci qualche antipasto in attesa che arrivino tutti. Qualche anno fa ha sposato il rappresentate di un’azienda farmaceutica ed è incinta del secondo bambino; Toni le dice siediti, faccio io, ma lei continua ad alzarsi e salutare le persone che arrivano a singhiozzi. Mentre li osservo orbitare l’uno nei paraggi dell’altra, mi domando se ancora pensano a quei primi baci dati male, nella foga di provare; se oggi riescono a sostenere lo sguardo reciproco senza tornare a quella sera del primo anno, protetti da una nuvola di Poison Dior che lei si era spruzzata in eccesso sul maglione, per evitare che il padre la scoprisse. Valentina si alza di nuovo quando all’ingresso compare Maddalena. Le loro moine mi sembrano eccessive, perché non ho nessuna immagine di loro due insieme ai tempi del liceo, poi mi ricordo di alcune foto in cui erano state taggate una accanto all’altra a una festa di laurea. Sia Valentina che Maddalena hanno studiato giurisprudenza, ma solo Maddalena è diventata avvocato. Si muove verso il suo posto col petto alto come quello di un uccello che gonfia tutte le piume per farsi notare. Si capisce subito che si è trasformata nella persona che avrebbe sempre voluto essere. I vestiti costosi che negli anni della scuola vedeva indossare alle ragazze ricche, i gioielli di Pomellato, le borsette di Ralph Lauren comprate a via Mazzini e lasciate sui conti delle madri: Maddalena le osservava con rabbia e ammirazione. Adesso sfila con lentezza lo spolverino di Burberry che indossava appena entrata, nonostante il caldo infernale. Lo tiene tra le mani in modo che sia a tutti visibile la marca, prima di sistemarlo sullo schienale della sedia. “Tutta colpa del meteo”, il racconto estivo Poi arriva Alex, che dopo tanti anni ancora non ha dismesso quella sua aria da artista maledetto. È pallido e magro, senza neanche un capello bianco sulla testa. Un periodo lo prendevo in giro, gli dicevo che somigliava a un vampiro, scherzando, e forse non avevo tutti i torti. Mi sorprendo a scrutare i suoi dettagli in lontananza, ma sto bene attenta che i nostri occhi non si incrocino. Non sono ancora pronta. Sul gruppo WhatsApp lui non aveva risposto, così avevo pensato che alla fine non sarebbe venuto. Appena si avvicina i maschi gli fanno un cerchio intorno, si danno pacche sulle spalle, il volume si alza, intanto gli antipasti arrivano e noi prendiamo posto. Si parla superficialmente di cosa facciamo, di dove siamo finiti, come se non ci fossimo spiati a sufficienza alla voce “lavoro” sui rispettivi profili social, nelle settimane che ci separavano dall’incontro. Siamo bravi a mostrarci stupiti, ma non troppo, perché non essere aggiornati su eventi come nascite o matrimoni potrebbe tradire il nostro effettivo disinteresse. L’attenzione viene presto catalizzata da Francesco, che dopo aver preso in tredici anni una laurea in medicina, ha buttato tutto all’aria e adesso lavora come life coach. Nel corso della cena, quando Valentina sente che anche Alex si è sistemato a Dublino per via di una startup, mi chiede se ci siamo mai incontrati. «Non metto mai la testa fuori dall»ufficio», le rispondo, «E poi non lo sento da più tempo di te.» Tecnicamente non le ho mentito. La lunga estate del ’59: quando l’Italia cambiò per sempre A giugno Valentina ci aveva contattati tutti per dirci che Arcangelo era morto. Aveva creato il gruppo WhatsApp, lo aveva chiamato “Quelli della III D”, ci aveva aggiunti uno per uno e poi aveva comunicato la notizia. Era stata una cosa fulminante. «Come lo hai saputo? Chi te lo ha detto?» «Mia sorella era in classe di suo fratello minore. Ce lo ha detto lui.» Aveva chiesto massima discrezione, tanto che in città erano stati affissi pochissimi manifesti. «E i funerali?» «A Vienna. Dove si era trasferito con sua madre.» Suo padre viveva ancora al vecchio indirizzo, così gli abbiamo fatto recapitare dei fiori e un biglietto firmato a nome della classe. Ce lo ricordavamo a leggere il Sole 24 ore il sabato a mezzogiorno, all’uscita di scuola, quando veniva a prendere il figlio. Un uomo simpatico. Abbiamo scoperto solo dopo che Arcangelo non gli parlava più da diverso tempo. «Organizziamo una messa» aveva scritto Maddalena. «Era ateo» aveva commentato Toni. Alla fine Valentina aveva deciso che si sarebbe fatta una riunione di classe. «Per ricordare Arcangelo», aveva specificato. Prima di allora, nessuno aveva mai sentito il bisogno di incontrarsi di nuovo. Negli anni che erano trascorsi dall’esame di maturità erano nati piccoli sottogruppi, alcune amicizie autonome, ma l’entità classe non si era mai ricostituita. Eravamo un gruppo di ragazzini in via di sviluppo del tutto incompatibili per carattere e desideri. L’ambizione era la sola cosa che avevamo in comune, e per questo eravamo cattivi. Questa non è Ibiza: a Ventotene ha vinto Virzì Quando intorno al 2009 tutti hanno iniziato ad aprirsi un profilo Facebook e a mandare richieste d’amicizia per ritrovare vecchi compagni di scuola, mi sono chiesta per quale perversa ragione alcuni di noi avessero sentito il bisogno di farlo. A cosa era dovuto quel desiderio di ricostruire un ambiente tanto tossico? Chiunque sia stato il primo a cercare gli altri, non lo ha fatto certo per il desiderio di tornare in contatto, quanto per assicurarsi di stare messo meglio, di essere quello che ce l’aveva fatta. Tornare in contatto significa recuperare un rapporto, ma noi un vero rapporto non lo avevamo mai avuto. Se in tutti quegli anni non ci eravamo cercati, le ragioni suonavano forti e chiare. Adesso però le regole del gioco erano cambiate. Adesso potevamo tornare a spiarci senza interagire, come succedeva in classe, con la differenza che avevamo acquisito il potere di decidere cosa mostrare. Mi è capitato spesso, crescendo, di incontrare persone con una forte nostalgia per gli anni del liceo, ma alla retorica secondo cui dovrebbero essere gli anni più belli della nostra vita, ecco, io non ci ho mai creduto. In quel periodo le nostre amicizie non erano che deboli alleanze che seguivano i flussi delle prove scritte di trigonometria, delle versioni di greco e latino, dei gruppi di studio per le interrogazioni di arte programmate. Era così in effetti che io e Arcangelo ci eravamo avvicinati. Quando ho saputo della sua morte ero su una nave che mi portava ad Atene e il mio primo pensiero è stato che il Partenone lo avevamo studiato insieme. Prima di allora non avevo mai provato a parlargli davvero. In classe lo sfottevano tutti, non lo frequentava nessuno perché era un tipo strano. Portava i capelli lunghi come un compositore tedesco del diciannovesimo secolo, la camicia chiusa fino all’ultimo bottone, i pantaloni sartoriali e la giacca anche nei mesi estivi. L’intervallo lo passava in disparte a leggere i libri di Gore Vidal. Era come se combattesse la frustrazione di essere ancora un ragazzino assumendo atteggiamenti da uomo adulto, ma a volte li esagerava così tanto da sembrare un anziano. Confessioni di un’amica cattiva a un addio al nubilato Alla lavagna alcuni dei nostri compagni disegnavano le sue caricature ogni mattina: Arcangelo a cavallo, Arcangelo in carrozza, Arcangelo in mongolfiera. Lui sorrideva, mostrava apprezzamento, ma ancora oggi non saprei dire se facesse sul serio. Non gliel’ho mai chiesto. Siamo diventati amici studiando i monumenti dell’età di Pericle, colonne doriche, ioniche, corinzie, le battaglie dei centauri, il carro del sole e quello della luna. “Quando non sai cosa dire parti sempre da una definizione” mi aveva detto un giorno, “prendi tempo”. Ha funzionato a lungo, fino a quando poi non ha funzionato più. Per anni non ho saputo cosa dirgli, sono scomparsa, così proprio la definizione della nostra amicizia è diventata quella più difficile da trovare. Dopo che Toni è tornato in cucina con le ordinazioni di tutti, abbiamo continuato ad aggiornarci sulle nostre reciproche vite. Qualcuno ha fatto il cammino di Santiago per intero, qualcun altro è diventato buddista. Qualcuno è riuscito a innamorarsi davvero, qualcun altro si è pure già risposato. Nell’infinito caleidoscopio dei nostri destini, che a mano a mano vengono giocati al centro della tavola come carte vincenti, è sempre più chiaro quanto nessuno di noi abbia mantenuto i contatti con Arcangelo, né saprebbe dire dove si trovasse o cosa facesse il giorno in cui gli è sopraggiunta la morte. Nonostante questo, a un certo punto tutti sembrano avere una parola cara, un ricordo indelebile da condividere con gli altri. Mentre aspetto che arrivi il mio turno, scivolo verso l’estremità della sedia e con la coda degli occhi mi assicuro che Alex non stia prestando attenzione. Il fatto che a nessuno suoni strano mi solleva, perché significa che di noi non sanno nulla. Quando tocca a me, racconto del primo anno di università e delle volte in cui Arcangelo veniva a prendermi sotto casa con la macchina del padre per portarmi a Napoli, alla facoltà di lettere. Una mattina, prima di un esame, mi aveva sistemato il bavero del cappotto lasciando libero l’ultimo bottone, dando all’immagine più ampio respiro. Aveva detto proprio così: più ampio respiro. Il mio aneddoto lo sente anche Alex, ma non può dire niente. Non può dire agli altri che sono stata una stronza, che ad Arcangelo io ho spezzato il cuore, perché altrimenti dovrebbe parlare anche di tutto il resto. Per esempio che il nostro trio è durato il tempo di un semestre. Arcangelo veniva ogni giorno dalla facoltà di economia nel cortile del chiostro in via Mezzocannone solo per passare del tempo insieme alla fine delle lezioni, fino a quando noi non lo abbiamo allontanato. Le sue storie all’inizio ci intrattenevano, poi erano diventate così palesemente fabbricate da risultare insopportabili. Una volta, per catturare la nostra attenzione, ci disse di essere arrivato direttamente dall’aeroporto. Si era inventato di aver trovato due banconote da cinquecento euro nei pressi di piazza Borsa e le aveva spese regalandosi una notte al Ritz Hotel di Londra. «Fa come il pavone» aveva detto Alex, «si fa grosso per te, è chiaro che gli piaci.» Non me ne ero mai resa conto prima di allora e da quel momento feci di tutto per evitarlo. Come aveva potuto pensare che lo avrei ricambiato? Perché si rendeva tanto ridicolo per niente? Cominciai a mentirgli inventando scuse ancora più assurde delle sue ipotetiche avventure, poi le raccontavo ad Alex per telefono, la sera. Provavo un certo piacere quando riuscivo a farlo ridere, così continuavo quella commedia perché lui mi trovasse brillante, geniale. Il prodigio: quando il cielo ride Per le vacanze di Pasqua di quel primo anno universitario, il mio piano aveva funzionato. Alex mi regalò un biglietto per un concerto di Pete Doherty a Parigi. Lo spettacolo non c’è mai stato, il cantante era troppo fatto di eroina, ma quando siamo tornati io e lui ci tenevamo per mano. Arcangelo se ne accorse nella prima pausa pranzo dopo il rientro: si era presentato a lettere e filosofia senza avvisare, perché voleva farci una sorpresa. È stata quella l’ultima volta che l’abbiamo visto. «Era buono» dice qualcuno, «il più buono di noi» «Un genio incompreso» «Un ragazzo troppo avanti per la sua età» Senza aspettare che il tavolo finisca il suo giro di storie, mi alzo per andare fuori. Ci trovo Francesco, che nonostante la sua fama da life coach non ha mai smesso di fumare. Mi lascia accendere, poi dice che la messa dovremmo farla lo stesso, dovremmo farla per noi. Io non posso che dargli ragione. «È l’unica cosa sincera che ho sentito dire da quando sono arrivata». Mi chiede se sono sorpresa, gli rispondo di no e quando mi rendo conto che potrebbe suonare male è già troppo tardi. Da fuori, attraverso il vetro, vediamo che gli altri iniziano a muoversi per tornare a casa. «Bella la storia della giacca, comunque» commenta Francesco, prima di rientrare nel locale. «La tua qual era?» gli domando. Doveva aver parlato mentre mi preoccupavo di tutte le cose che avevo omesso nel mio discorso. «La mia cosa?» «La tua storia da condividere» Mi racconta che il primo anno di università era stato a Londra con la sua ragazza e aveva incontrato Arcangelo alla fermata di Green Park. Era con una piccola valigia, un cappotto elegante e i guanti di pelle. Gli disse che stava andando a passare la notte al Ritz. Aveva trovato due banconote da cinquecento euro per strada e allora aveva deciso di farsi un regalo. «Una bella storia» gli dico. «Una storia assurda». La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Quando andiamo via non è neanche mezzanotte. Uno alla volta paghiamo il conto, ci baciamo due volte, diciamo a Toni che siamo stati bene, che torneremo presto, poi ci dirigiamo tutti a passi intermittenti verso le nostre macchine. La città si ripopola lentamente i primi giorni di settembre e lungo la strada deserta del centro storico ci siamo solo noi, mentre l’estate finisce. Da un marciapiede all’altro ci promettiamo che ci vedremo ancora, che dopo la messa faremo un’altra cena, magari un concerto di beneficenza, qualcosa di musica classica, un’asta, una conferenza. Maddalena conosce qualcuno che conosce qualcun altro, che ha già detto che non ci sono problemi. Valentina dice che sarebbe bello contattare la madre di Arcangelo a Vienna, magari trovarci insieme lì per il primo anniversario. Sono tutti d’accordo, e fanno a gara a chi deve fare cosa. Quando ci separiamo, il rumore degli sportelli che si chiudono fa eco tra i palazzi. Io mi lascio cadere sul sedile dell’auto e resto qualche minuto ad aspettare che il gruppo si dissolva. Prima di mettere in moto, mi chiedo se è così che succede sempre. Se crescendo è il buio della notte a diventare via via più silenzioso, oppure siamo noi, impegnati a cercare ovunque delle definizioni, senza essere più capaci di trovarle. [Missing Caption][Missing Credit]