C’è un libro di favole per bambini di Leonora Carrington intitolato Il latte dei sogni, nel quale l’autrice raccoglie storie e pensieri ispirandosi ai disegni, spesso assurdi e privi di senso, che i suoi nipoti tracciavano sulle pareti di una casa a Città del Messico. È popolato da pezzetti di carne marcia che fanno la spia, bambini le cui teste si trasformano in case, anziane che puzzano di cacca, avvoltoi che finiscono nella gelatina e vengono scambiati per frutta, e via dicendo. In un crescendo di surrealtà ipnotica.

Rocco Tanica, pur rivolgendosi a un altro pubblico e ispirandosi esclusivamente ai disegni che trova incisi nelle sue pareti intracraniche, ha fatto qualcosa di simile. Ha seguito le suggestioni di un modello di deep learning – in pratica un software capace di imparare lo stile e i contenuti di un testo per generarne di nuovi a completamento – per comporre un personalissimo mosaico di assurdità ultramoderna.

Non siamo mai stati sulla terra (Il Saggiatore), ultima fatica del poliedrico tastierista, autore e genio trasversale che è Tanica, è un compendio di tutto l’assurdo che si può rintracciare dentro e fuori dalla realtà conosciuta. È, senza mezzi termini, una mente fervida e creativa rivoltata sulla pagina con la pretesa di convincere il lettore che sia stata coadiuvata da un’intelligenza artificiale, la cui esistenza è testimoniata, tra le altre cose, dal certosino e minuzioso cambio infinitesimale di carattere tra una frase e l’altra del testo.

Una fatica immane, ma niente affatto superflua. Out0mat-B13, questo il nome dell’AI, è una presenza fisica, tangibile, e il suo perseverante sforzo a razionalizzare le trovate irrazionali dell’umano che si trova ad affiancare contribuisce a rendere il tutto più credibile.

Ricorda, e certamente non è un caso, qualche personaggio gregario di Douglas Adams, malinconico e riverente; ma sfoggia anche la distaccata forza caratteriale del Lloyd di Simone Tempia, diventato in un paio di decenni un piccolo capolavoro dell’umorismo, e la sfacciataggine del robottino pessimista delle Storie dello spazio profondo, scritte nel 1969 da Francesco Guccini e Bonvi.

Un’urgenza creativa

Quando ci si stacca dalla pagina e si nota per la prima volta lo scarto di carattere, visibile esclusivamente per la presenza o meno dei serif, ci si rende conto di avere per le mani un’opera tutt’altro che banale. Non è il libro di un comico che, per citare proprio Tanica, «vuole fare il simpatichini»; e nemmeno un’operazione di accrocchio commerciale per cavalcare un nome di chiamata. Nei testi di Tanica e Out0mat-B13 si percepisce un’urgenza creativa fondamentale e quantomai autentica.

Il formato spazia allegramente dal racconto alla fiaba, dalla reclame all’haiku; fa il verso agli autori russi e si appropria del neorealismo; cita di continuo, lasciando il dubbio di una volontà non proprio ferrea ma rimandando costantemente il lettore ad altro, alle sue fonti di ispirazione, alla sua matrice realistica.

In un’ambientazione che ricorda molto da vicino alcuni Urania – quelli che si leggevano di fretta, intorpiditi dall’identità di collana incarnata nelle copertine più riconoscibili di sempre, per poi fermarsi un momento e accorgersi che si trattava magari di Isaac Azimov, Ursila LeGuin o Ray Bradbury – Tanica e Out0mat-B13 costruiscono un universo a sé: uno spazio neutro e neutrale all’interno dei confini del quale tutto è concesso. Persino ciò che ormai non è più concesso da nessun’altra parte e che, nel mondo reale, rischierebbe di trascinare i suoi autori, esseri umani o marchingegni robotici che siano, nell’occhio di spiacevoli cicloni.

Fare umorismo ucronico, pescando di qui e di là nell’immaginario sci-fi e non tralasciando nessuno dei punti saldi della letteratura e della cultura pop, non è decisamente un’impresa nella quale gettarsi a cuor leggero. Farlo, poi, lasciando trasportare il testo dalle bizzarrie generate dall’intelligenza artificiale, dandosi come missione quella di compiere il senso di qualsiasi trovata con la quale la macchina potesse uscirsene, è un atto di puro eroismo.

Per alcuni, l’obiettivo di una vita. Il sogno inconfessabile comune di Bradbury, LeGuin, Adams e Azimov, ma anche di Kurt Vonnegut, Robert A. Heinlen e Arthur C. Clarke, messo in atto da un Philip K. Dick col senso dell’umorismo. No, Non siamo mai stati sulla terra non è un libro comico, è una professione di fede. Tanica, che nella sua carriera di compositore e autore ha sempre dimostrato di non disdegnare affatto la sperimentazione, in questo caso, in nome del suo personalissimo humor, ha fatto un passo oltre. Una pazzia, può darsi, ma riuscita stupendamente.

Ridere e riflettere

Ogni volta che nella storia della letteratura fantascientifica si è immaginato qualcosa di simile a Gpt-3, il software utilizzato da Tanica e che nel libro parla in sans-serif, ci si è limitati a concentrarsi sulle possibili velleità di prevaricazione sulla razza umana della macchina, scordandosi delle potenzialità comiche che poteva avere.

Perché va bene conquistare la terra, ridurre l’intera umanità in schiavitù e magari utilizzare uomini e donne come fonti di energia dando loro in pasto una realtà completamente fittizia, ma perché non infilarci una risata, di tanto in tanto?

Non siamo mai stati sulla terra è l’intermezzo comico in un campo in scala di grigi e profondi buchi neri. E non si tratta solamente del panorama generalmente pessimista della letteratura sci-fi, ma della penuria quasi assoluta di umorismo originale in un momento nel quale siamo sommersi da libri di comici e umoristi.

Rocco Tanica, che all’inizio sembra voglia sfidare la sua AI e piegarla al suo volere ma che alla fine traccia l’arco perfetto della nascita di una meravigliosa amicizia, dà uno schiaffo alla letteratura sedicente umoristica pubblicata inseguendo il nome, l’influencer o la trasmissione del momento.

Compie un gesto rivoluzionario e complesso; difficile da scrivere e difficile da leggere senza la giusta predisposizione, ma importante, perché rinuncia al completo possesso del testo (e delle immagini) in nome di una presa di posizione. Fa, come si dice banalizzando ma in questo caso a pennello, ridere ma anche riflettere. Soprattutto riflettere. Ma anche ridere, molto.


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