Tutto esiste e poi muore e sì, oggi tocca alla carriera di Federer. Tocca a Roger, col rintocco dei 41 anni il mese scorso a segnare il tempo per le competizioni che non c’è più. E con gli ultimi tre, di anni, spesi per il vero da turista del tennis giocato, a rincorrere un rientro sempre meno plausibile. O magari l’ultimo slam ma quello, e sarebbe stato il ventunesimo, gli è rimasto sulla racchetta: un attacco di dritto nel quinto set della finale di Wimbledon 2019, contro Djokovic.

Provate a rivolgervi a un fan di Federer – non è complicato, ce ne sono a decine di milioni nel mondo; magari vi basterà fissarvi allo specchio – e recitate questi numeri: 8-7, 40-15. Loro sapranno, voi saprete. Che nel frattempo Rafa Nadal, di slam, ne ha acciuffati ventidue. Novak, ventuno. E altri record di successi assortiti, tuttora in aggiornamento.

Il capolavoro

C’è un però: Federer è Federer. È il Colosseo, è la piramide di Cheope, la cascata del Niagara; è Delitto e castigo, è Let it be dei Beatles, è la Guernica di Picasso, il Padrino di Coppola. Chi si metterebbe a misurare i monumenti, a pesare i capolavori, a prezzare un’opera immortale o classificare un patrimonio della natura? Chi conserva il metro per stabilire l’ordine di merito della grandezza, chi sa mettere in fila le categorie di genio?

Ecco, in questo Roger Federer ha saputo trascendere le epoche del suo sport e il concetto stesso di essere il migliore. Federer è diventato un hors catégorie dal giorno in cui ha vinto il suo primo torneo – toh, è capitato al defunto Atp di Milano, era il 2001 – fino all’ultimo, il decimo sigillo nella su Basilea, diciotto anni dopo. In mezzo, un cammino fatto di 103 titoli, sì, venti slam, sei Atp Finals, 237 settimane consecutive in vetta al ranking.

L’ultimo erede

(Ap)

Sembrano statistiche, sono cifre a simbolo di un valore mostruoso e basti pensare alle frotte di campioni rimasti a zero slam, o al più uno: Leconte, Rios, Berdych, Haas, Nalbandian, Stich, Ivanisevic, Roddick, del Potro. Signori giocatori. Ma soprattutto è stato l’incarnazione di un tennis che pareva inoculato dal dio della racchetta, quel gesto elegante e fluido, l’accarezzare con le suole il rettangolo di gioco, con l’estetica dei grandi australiani vestiti di bianco e la genialità del John McEnroe più ispirato, quello che confessò pubblicamente di invidiargli le doti tecniche.

Ma non basta. Perché Federer ha dato battaglia non nel tennis giocato al rallentatore all’ora del tè ma nell’era dei carri armati, dei servizi ai duecentotrenta all’ora, delle risposte con la pallina infuocata, dei fisici portati allo stremo e gonfiati all’inverosimile dalla palestra – si spera solo da quella.

Nell’era del bastone ha ballato il lago dei cigni mentre, intorno, schitarravano i metallari e, per lo più, ne è uscito vincitore. Questo ha fatto innamorare le folle: un erede, l’ultimo, del classicismo. Davvero, l’ultima scimmia. Il prodotto evolutivo di ciò che ancora, in fondo, continua a smuovere la nostra anima più di tutto, che sia sport o una a scelta delle altre arti. E che non è la tecnologia, né velocità pura o la forza che sfonda, o ancora il cronometro che s’arresta un millesimo di secondo prima né può essere la pur legittima conta brada degli scalpi avversari e delle tacche sulla cintura. È un saper fare le cose meglio di tutti.

L’addio

Dalla sua casa vista costa mare Ivan Ljubicic, il coach complice dell’ultima rinascita di Federer dal sensazionale 2017 in avanti, è sereno. Lo sapeva già, che diamine, ben prima che Roger spargesse per il mondo la sua lettera d’addio: tre interventi al ginocchio e una riabilitazione senza uscita erano una sentenza anche se il campione, e in famiglia lo sapevano la moglie Mirka e i quattro figli, avrebbe veramente voluto giocare per sempre e non invecchiare mai.

«Ma sono in pace, davvero. Dentro sento silenzio, nient’altro». La prossima settimana, Ljubicic sarà a Londra a salutare il suo giocatore che disputerà l’ultimo torneo, la Laver Cup, un’esibizione agonistica che Roger ha creato in onore del grande Rod Laver, il più grande tra gli antenati del suo tennis e tuttora suo appassionato fan.

La gente vorrebbe una parola di conforto e Ljubicic ce la concede: «Roger ha cambiato lo sport. Gli inglesi la chiamano legacy, è l’eredità: ecco, Federer non è solo le sue imprese. Federer è come ha giocato a tennis ma anche come ha vissuto il tennis, come si è comportato sul campo da tennis, cosa rappresenta per le persone che amano il tennis».

Anche l’avversario di sempre, Rafa Nadal, gli ha rivolto un pensiero: «Caro Roger, mio amico e rivale. Vorrei che questo giorno non fosse mai arrivato. È un giorno triste per me personalmente e per lo sport di tutto il mondo. È stato un piacere, ma anche un onore e un privilegio, condividere tutti questi anni con te, vivendo tanti momenti straordinari dentro e fuori dal campo».

L’amore per il tennis

FILE - Roger Federer of Switzerland holds the trophy after defeating Andy Roddick to win the men's singles championship on the Centre Court at Wimbledon, Sunday, July 5, 2009. Federer announced Thursday, Sept.15, 2022 he is retiring from tennis. (AP Photo/Kirsty Wigglesworth, File)

Non è un caso che nel suo testo, recitato con voce stentorea e un filo nostalgica, Federer abbia tenuto a ribadire il suo amore per uno sport che lo vide per la prima volta in campo da raccattapalle, a Basilea. Da ragazzo, si faceva i colpi di sole e viveva a cereali zuccherosi inzuppati nel latte, gli piaceva la musica techno e tendeva a sfogare la frustrazione sfasciando racchette.

Immaginarlo in tenuta impeccabile, a cena con i maggiorenti del club a Wimbledon, sembrava perlomeno azzardato. Ma quando dice che ha cercato di rispettare al massimo delle sue forze il tennis, afferma il vero. Per farsi icona di un gioco del quale ha racchiuso in sé la forza, la classe, la bellezza (e la vittoria, certo) Federer ha dovuto metterci l’anima.

E così per governare un talento selvatico e plasmare un corpo capace di reggere, quasi senza crepe salvo quelle del comune destino della senescenza, ventiquattro anni da professionista; in uno sport crudele che ha logorato e spremuto all’esaurimento ancora in età verde i Borg, i Sampras, i Becker e che, prima di Roger, aveva eletto Agassi e Connors a nonni solo perché, dopo i 35, ancora piazzavano qualche colpo da maestro.

«Ci sarà ancora il tennis nel mio futuro ma non nei tornei del Grande slam o in eventi ufficiali», ha spiegato nel suo messaggio urbi et orbi. È un «bittersweet ending», un finale dolceamaro, perché i quaranta sono quell’età in cui, oggi, ti senti ancora un ragazzo ma hai le rughe, ti pare non sia cambiato nulla e invece il medico ti riserva il lessico della vecchiezza: usura, infiammazione cronica, consunzione. Non esistono ancora arti in sostituzione.

Anche al tennis, e non solo a lui, sembra che Federer sia da sempre stato Federer e forse è questa, nell’ineluttabilità del tempo, la consolazione in un giorno più bitter che sweet. Roger ha giocato la sua penultima partita più di un anno fa, a Wimbledon. Smettere, aveva già smesso. Ma è come se non lo avesse mai fatto. Neanche oggi, che firma le dimissioni da atleta ma non da più grande di tutti.

© Riproduzione riservata