Un giorno assolato può inquietare quanto la notte più nera. Mi svegliai a quell’ora in cui l’oscurità non ha ancora ceduto il passo alla luce: un brutto sogno, o forse un cattivo presentimento. E’ strano, pensai. Di mattina presto anche il caldo più accanito concede una piccola tregua. Invece sdraiato sul letto vedevo sorgere un sole turgido di fuoco, fissavo un’alba incandescente che faceva sudare come a mezzogiorno.

Decisi di uscire perché in casa mi sembrava d’impazzire. Che ore potevano essere? Le sei, le sette?
Per strada, la prima cosa che notai fu la penosa e straordinaria assenza di vita. D’estate è normale che la città sia un po’ meno caotica, ma lo spettacolo a cui stavo assistendo era di tutt’altra natura: d’improvviso mi parve di essere l’unico uomo che stava percorrendo piazza Cavour. Il caldo era terribile. Non si trattava soltanto di afa - in fondo chiunque abiti a Roma è avvezzo al suo inconfondibile microclima tropicale -, piuttosto di un caldo che prendeva i nervi, che diventava qualcosa d’angoscioso. Mi dissi che tutto sommato era normale che fossi preda di quei tarli, venivamo da una giornata in cui termometro aveva toccato i quaranta gradi, e a causa delle temperature elevate l’Aurelia aveva preso fuoco in diversi punti.

Da nord, un’aria mefitica, satura di gomma bruciata e bombole Gpl esplose era calata come un uccello del malaugurio sull’intera città, prima Monte Mario e il Foro Olimpico, poi Prati e Borgo, e perfino il Vaticano. Le pire della mala gestione e del malgoverno, le rovine definitive di Roma.

Procedevo accecato dalla luce sul lato sinistro di piazza Cavour. Davanti a me, come un miraggio, si ergeva la facciata bianchissima della chiesa Valdese, un puntino sperso nell’asfalto che già ribolliva e s’incollava alle suole delle scarpe. Sul lato opposto il retro del Palazzaccio scorreva lentamente, al ritmo dei miei passi esitanti.

Piazza del Popolo e il Sahara

Camminai fino a piazza del Popolo. Attraversarla mi parve un’impresa al di sopra delle mie possibilità - un po’ come affrontare il Sahara -, perciò mi limitai a percorrerne il perimetro fino a via del Corso. Le serrande dei negozi erano tutte abbassate, così riflettei che doveva essere ancora molto presto. Eppure il caldo si depositava sulle cose come uno strato di polvere, mozzava il respiro e fiaccava l’incedere.

A piazza Venezia l’Altare della Patria era abbandonato a se stesso, non un passante, non un turista, non un’automobile. D’improvviso ebbi una furibonda nostalgia di tutto ciò che di solito detestavo: mi mancò perfino il pizzardone che in genere dirigeva il traffico sopra la pedana. Mi affacciai sui Fori Imperiali giusto il tempo per intravedere il Colosseo immerso nei vapori bollenti: sembrava uno scolapasta.

Ma dov’erano tutti? Al Quirinale incontrerò almeno i corazzieri di picchetto al Presidente, mi dissi. Sapevo che per essere presi in quel reggimento speciale bisognava essere alti almeno un metro e novanta, e da un momento all’altro mi aspettai di vedere baluginare un elmetto tirato a lucido. Ma niente, a presiedere il palazzo erano rimaste solo le bandiere d’ordinanza - il tricolore e il vessillo dell’Unione Europea - afflosciate come fiori senz’acqua. Scrollai la testa e proseguii.

A via Veneto i bar erano tutti inesorabilmente chiusi, con le sedie incatenate una sopra l’altra vicino agli ingressi sprangati. Dagli hotel di lusso non usciva o entrava nessuno, e non c’era l’ombra neanche di un facchino. Mi ributtai a capofitto nel dedalo di stradine del centro storico. Da quando ero uscito non avevo ancora incontrato anima viva, possibile? Certamente d’estate esisteva una sorta di sospensione temporale nel bel mezzo della giornata, un particolare coprifuoco pomeridiano che spopolava la città che i romani chiamavano “cecagna” (più estremo e pernicioso della “pennica”), ma non era ancora presto, troppo presto? Volli controllare io stesso l’ora ma il mio telefonino non dava segni di vita, aveva smesso di funzionare, mi si era sciolto in tasca. Lo tirai fuori a fatica, se ne stava attaccato alla stoffa come un chewing-gum masticato.

I nasoni

Improvvisamente avvertii un rumore inconfondibile. L’allegro getto d’acqua di un nasone, una di quelle fontanelle di cui Roma è tappezzata, e che rappresentano il suo sistema idro-vascolare segreto, ciò che le permette di sopravvivere nei giorni di canicola. Sentivo distintamente lo scroscio d’acqua, non poteva essere a più di qualche passo... Non trovai niente di niente, forse mi persi, cominciai a girare a vuoto.

Che l’amministrazione avesse cominciato a razionare l’acqua vista la siccità che prosciugava i laghi e i fiumi? Perfino il biondo Tevere in quei giorni era soltanto un letto di melma assetato? Di sicuro avevo preso un colpo di sole, avrei dovuto rincasare. Poi mi resi conto che ero arrivato nei paraggi dell’abitazione di un mio caro amico, intellettuale raffinato. Chiederò riparo a lui, mi dissi. Una volta che ebbi raggiunto il portone, però, notai un cartello con su scritto “Affittasi”. Come se non bastasse il palazzo sembrava aver subito un cedimento strutturale, e una ragnatela di crepe si stendeva da finestra a finestra.

Ero stato a cena da quell’amico giusto un paio di settimane prima, e avevamo parlato amabilmente di libri e di donne, con la nostra consueta spregiudicatezza erudita. Per di più non mi aveva fatto cenno di un trasloco imminente, quindi perché adesso quel luogo mi appariva così tetro e abbandonato, cupo e morto? Che mi fossi confuso, che avessi sbagliato strada? Mi prese come una smania, la voglia di sapere di non essere solo. Cominciai a bussare a tutte le porte che circondavano piazza Santa Maria in Trastevere. Nessuno mi aprì, tutto rimase ostinatamente chiuso, ostinatamente sbarrato, ostinatamente inaccessibile. D’istinto riafferrai il telefono e provai a contattare qualcuno, ma lo schermo che dovevo pur toccare per selezionare il comando di chiamata mi si appiccicava alle dita.

Lo sporco aumenta il caldo

Nel frattempo il caldo, se possibile, si era fatto ancora più minaccioso. Sentii, o mi parve di sentire, lo sgocciolio di un altro nasone, ma ancora una volta non riuscii a trovarlo.

Seguendo quell’acqua immaginaria perdevo le coordinate spazio temporali, mi ritrovavo in posti in cui mi pareva di non essere mai stato, tutti inequivocabilmente sporchi e trasandati. E se c’è una legge estiva è proprio la seguente: la sporcizia aumenta il caldo, e il caldo aumenta la sporcizia. Non era forse vero che la città aveva smesso di smaltire i rifiuti e che i cassonetti erano diventati le tavole calde di gabbiani, ratti e cinghiali?

Volli sapere se almeno l’acqua del Tevere scorresse ancora. Se il nostro fiume era salvo lo saremmo stati anche noi, pensai. Raggiunsi il fiume, scesi le scale.

Sarei stato pronto a tutto, anche a buttarmici dentro. Poi, dal basso, intravidi il chiosco di un venditore di grattachecche che apriva i battenti. Mi rianimò il colore delle varie bottiglie di sciroppo, la menta verde d’un verde smeraldo, la fragola rossa d’un rosso rubino, il limone giallo d’un giallo canarino.

Allora urlai. - Cos’è successo a Roma?

Il grattacheccaro si sporse un poco dal muraglione. - Dotto’ che vole che sia successo, stai sereno, er callo te ciancica e poi te sputa.

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