Guardate, guardate quanto è bello! È ’O Principe Piccerillo – disse Catarina affacciandosi al balconino del vico e sollevando il ninnillo verso l’alto, come a volerlo far raggiungere dal raggio dorato di un sole che invece fino a laggiù non ci arrivava.

E i passanti del vico, e quelli che stavano affacciati alle finestre o ai balconcini, si voltarono a guardarlo e tutti sorrisero.

È da quell’immagine raggiante che per un momento resta immobile, è da quella disperata felicità che partiamo per andare laggiù, verso un ruscelletto e un prato che lei, Catarina, non sapeva mai dire quale dei due serpeggiasse meglio.

– In generale, a serpeggiare sono i ruscelli – le diceva Antonio. Ma se tu ci vedi pure il prato, se lo consideri capace di farlo… E allora che serpeggino insieme. E che luce, eh, Catari’?

– Bellissima Anto’. Ci dobbiamo venire più spesso quaggiù.

-–Ti piace, vero? – le rispose andandole vicino di mascella serrata.

– Mi piace assai stare con te, qui, dove nessuno ci vede.

– Nessuno… Però… per quello che facciamo noi due, pure se ci vedessero non ci sarebbe nulla di male.

– A me non piacerebbe.

– Catari’, qualche bacetto, qualche palpatina…

– E ti pare poco?

– Poco e nulla a paragone di tutta questa passione mia. La vuoi sentire, la passione mia?

E lei, spingendolo via con entrambe le mani, si divertiva e si metteva a ridere. La Madonnella, la chiamava lui, perché Catarina aveva i capelli biondi e gli occhi azzurri, e poi perché era delicata, con le venuzze azzurrine che davvero le serpeggiavano sulla carnagione bianchissima. Tutto il contrario di Antonio che sembrava un saraceno e lei, ogni volta che lui si avvicinava troppo lo spingeva via dicendo:

– Lontano, Anto’. Mica siamo sposati. E nemmeno fidanzati ufficialmente.

Per la rabbia, lui si metteva a dare qualche calcio all’erba.

– Per quello che mi lasci fare – le disse quella volta. – Possiamo pure chiudere qui. Io le intenzioni serie ce le avevo, che ti credi? Io ti sposavo e ti facevo fare subito un bel ninnillo che sarebbe stato il nostro Principe Piccerillo. La conosci la storia?

– No, che storia è?

– Eh, quello è un ninno con i riccioli biondi, gli occhi azzurri, proprio come te, Catari’, che vive in un piccolo pianeta tutto suo. Ma piccolissimo.

– Non ha i genitori?

– Non se ne dice. Con lui c’è una rosa.

– E che se ne fa?

– Ci parla.

– E quella gli risponde?

– Certo che risponde e ‘o fa asci’ pazzo, un po’ come tu fai con me. Te lo devo regalare questo libretto.

– È un libro?

– E con molti disegni.

– E poi che succede?

– Che il Piccerillo se ne va dal suo pianeta e ne conosce altri. Lo sai come se ne parte?

– No. E come ‘o saccio?

– Passano degli uccelli migranti e lui si attacca a loro. E in questo modo visita altri pianeti e così comincia a farsi un’idea di come vanno le cose negli universi. Ti piace, eh, Catari’?

– E come vanno ‘e cose?

– Bene e male. Ma poi arriva sulla Terra. E, specificamente, nel deserto.

– E che ci va fare? Lì non c’è niente. È scemo sto piccerillo, dai retta a me.

– E invece ci trova parecchie cose. E pure tanta confusione, Catarina mia, gioia mia, zucchero mio, giuncata e rose…

– Ma a storia de sta criatura, come finisce?

– È un mistero, Catari’. A seconda di come la leggi può finire male o bene. Come nella vita. Per esempio, come tra di noi.

– Noi non ci azzecchiamo niente. Noi ci dobbiamo fidanzare e poi sposare. E fine della storia. Anzi, e vissero tutti felici e contenti.

– Non mi basta.

– Perché non hai pazienza. Perché mi vuoi sfruculiare. Questo me lo dicono tutti.

– Cosa?

– Che ti devo tenere a bada, ché tanto voi uomini siete così. Scalpitate fino a che il nostro profumo vi sta sotto vento, poi vi rimettete a brucare tranquilli. Mia madre mi dice, gli devi uscire dall’odorato.

– Se fai in tempo Catari’. Che poi, a me, il profumo tuo mi resta sempre dentro il naso, e mi fa smaniare assai. I tempi so’ cambiati. Siamo negli anni ’60. Le cose non vanno sempre uguali uguali. C’è la modernità che avanza. A stringersi stretto stretto quel gioiellino, si rischia.

– Che?

– Che il giovine si metta a carcare altrove.

Catarina gli voltò le spalle, si tolse le scarpe e si mise a camminare lungo il ruscello.

– Anto’, lo vedi come fa il ruscello? Sperpenteggia.

– Serpeggia.

– No serpenteggia, Anto’. Somiglia proprio a te.

– E allora, se io sono il serpente tu sei Eva mia adorata.

– Spiacente, ma io sono di Adamo.

– E allora sono Adamo e questo serpente lo schiaccio. Guarda, così – e spinse con la scarpa così forte su un ciuffo d’era che lo disfece mescolandolo al fango.

Catarina si mise a correre e lui dietro, ma a passo lento. Lo accelerò solo alla fine, quando all’improvviso la prese per un braccio, l’attirò forte a sé e le disse:

– Catari’. Dice e sì.

E con un fiato così dolce che a Catarina parve pure caldo… Chiuse gli occhi, perché le bruciavano, mentre lui continuava a tenerla per il polso stringendo sempre più forte. Fece una smorfia, Catarina, non riuscì a parlare ma pensò: il serpente sei proprio tu. E intanto Antonio la baciava, la stringeva, la spinse sul bordo del ruscello in quella giornata di sole caldo che veniva già ammielato, liquido, saturo.

E tutto era di quel colore: gli alberi, il prato, il cielo, l’acqua. Ogni cosa si caramellava e Catarina sentiva solo il suo stesso fiato farsi grosso, come non riuscisse più nemmeno a fare un respiro pieno, fino in fondo, qualcosa si fermava formicolando in mezzo al petto, tra l’inizio dello stomaco e i primi vortici del sangue intorno al cuore.

Non c’era niente di felice, solo una polvere affumicata che girava nell’aria come dopo un incendio e così i colori cambiarono e si fecero grigio scuro. Tutto prese quel colore: gli alberi, il prato, il cielo, l’acqua. Ogni cosa si era intossicata.

– Bella che sei Catari’ – le disse lui toccandole ancora tutto il corpo nudo. – Hai visto quanto è stato bello?

Ma lei allungò le mani verso i suoi vestiti e si mise a piangere. Antonio, per mortificarla, glieli allontanava, e così lei strisciava nuda su quel prato annerito e lui rideva mentre le allontanava i vestiti con un calcio ogni volta che lei stava per raggiungerli. E del suo pianto, delle sue lacrime di cenere rideva divertito.

– Catari’, mo qui io ti ci porto tutti i giorni, o a capriccio, quando mi va. E con il corpo tuo ci faccio i comodi miei. Con questa bella Madonnina che ho ricoperto di fango.

Catarina tornò a casa che sembrava impazzita. La madre le diceva di parlare, e lei ci provava, ma dalla bocca le uscivano solo bolle che poi si rompevano e le bagnavano le labbra. Non ci volle molto a capire che la sua pancia si gonfiava. Allora il padre andò a parlare con Antonio, perché di quella simpatia si era accorto.

– Anto’, sono venuto a parlarti come un padre. Catarina aspetta un bambino e tu ti devi prendere le tue responsabilità. È successo, ci mettiamo una bella pietra sopra e non ci pensiamo più. Meglio ancora, pensiamo solo alla vostra felicità e al piccerillo che deve nascere. Vi sposate e poi ci arrangiamo da noi.

Antonio fece un sorriso beffardo, di labbra arricciate e lievemente di sbieco. Poi si toccò oscenamente sopra i pantaloni, strinse gli occhi e fece un verso di immaginato piacere.

– Me la sono goduta assai quella zoccola di vostra figlia. Ma il bastardo ve lo potete tenere. Io non me la sposo una che si lascia fare tutto come Catarina. Per il matrimonio ci vogliono le brave ragazze.

Al padre tremò il naso, sembrava dovesse starnutire, e poi, come in un ripensamento, la sua mano destra si avvinghiò intorno al collo di Antonio e strinse forte. Non usò entrambe le mani, per ammazzarlo gliene bastò una sola. E poi, così bello stecchito, lo portò come un trofeo davanti a Catarina che si alzò dalla poltroncina e svenne.

– Diceva che una zoccola non se la sposava – disse il padre davanti al corpo svenuto della figlia e a quello contorto dal dolore della moglie.

– Chi ti ha visto?

– Non lo so. Intanto lo sotterro stanotte vicino al ruscello, dove se l’è spassata con quella zoccola di nostra figlia. E poi vedremo.

Non ci venne nessuno a cercare il padre di Catarina per portarlo in carcere. Né quella notte, né le altre che seguirono. E Catarina non parlò più fino al giorno del parto. Allora, quando finalmente glielo misero tra le braccia e lo vide, disse a bassa voce: ’O Principe piccerillo… ’o piccerillo mio.

E da quel momento all’istante dell’apparizione al balconcino passò meno di un anno. Di casa non usciva mai, passava le giornate ad allattare e ad abbassare gli occhi quando il padre la guardava. Ma quel giorno non aveva potuto resistere. Si era affacciata e aveva quasi gridato, sì, forse aveva proprio gridato:

– Guardate, guardate quanto è bello! È ‘O Principe Piccerillo.

E i passanti del vico, e quelli che stavano affacciati alle finestre o ai balconcini si voltarono a guardarlo e tutti e sorrisero. Ma erano beffardi, screanzati. Un uomo con un carretto di stracci sollevò lo sguardo verso l’altro e le disse:

– ‘A madre zoccola e il principe piccerillo suoje.

E poi tutti scoppiarono a ridere. E i genitori di Catarina restarono arretrati, ché proprio non si capacitavano di come la loro figlia avesse potuto esporsi così, senza vergogna. Si guardarono dandosi la colpa l’un l’altra ma restando muti. E così non la videro che con quella creatura in braccio, con quel piccerillo dai capelli biondi e gli occhi azzurri, scavalcava il ferro battuto del balconcino e un attimo dopo erano a terra entrambi. Schiantati e senza vita. Disarticolati.

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