Doveva essere una vacanza per staccare, ma mi ero comunque portato dietro il pc perché, sai, magari qualche paginetta da scrivere ci scappa – e perché odio il mare, ma questa è un’altra storia. Eravamo appena tornati da una passeggiata al chiaro di luna, controllo le mail e vedo in allegato il commento a un vecchio romanzo che avevo spedito secoli prima a un premio letterario. Nel mentre ero già stato pubblicato, ma anche questa è un’altra storia. Neanche a dirlo, il commento è, mettiamolo tra virgolette, poco lusinghiero.

Era una bella serata e mi ero quasi abituato alla sabbia maledetta che ti si infila dappertutto, ai tizi strambi che girano per le spiagge, al «donne è arrivato l’arrotino» strombazzato nel cuore del mattino (che per me equivale al cuore della notte) e al cocco bello. Non avevo ancora sconfitto la fobia dell’acqua, ma ci stavo lavorando. Poi arriva quella mail, la leggo e la rileggo e non riesco a dormire. Lo so, lo so, riguarda un romanzo che non avrei ripreso in mano neanche sotto tortura, che nemmeno avrei avuto intenzione di pubblicare, un vecchio file word di trecento cartelle dimenticato in un angolo del desktop… Ma tutti gli alibi che tiro fuori dal cilindro non servono a una mazza. Perché quella roba, per quanto vecchia, l’ho scritta io.

Una cosa nuova

Sono circa le due di notte quando mi siedo al pc, sotto la luce tipo autopsia della cucina dell’appartamento in affitto, una cucina presa dal set di Fuga da New York, le crepe che corrono lungo i muri, la bombola del gas sotto i fornelli che aspetta solo di esplodere, il ventilatore sparato in faccia, la portafinestra che non chiude bene e l’assalto continuo delle cimici che si schiantano sulla lampadina nuda. Me ne sto lì, in mutande, a scrivere una cosa nuova, un altro romanzo che non volevo avesse nemmeno mezzo dei difetti dell’altro, che avrebbe fatto rimangiare quella recensione… stacco solo quando passa il furgone a ricordarmi che è arrivato l’arrotino.

Non è un’immagine che esporrei in una galleria d’arte, ma rende bene il clima in cui è nato Niente a parte il sangue. I personaggi mi giravano in testa da un po’. Giovani disgraziati senza futuro, che un futuro nemmeno lo vogliono, tizi cresciuti col ritornello della crisi perenne nelle orecchie. Crisi della cultura, crisi politica, crisi dei valori, crisi economica, crisi della scuola, del lavoro, dei sindacati, dell’università, ovunque ti giri ne pesti una e a furia di pestarle non ci fai neanche più caso. Un tempo magari avevi in testa la rivoluzione, ti ubriacavi di qualche ideologia e pensavi di cambiare il mondo, oppure finivi a fare lo yuppie stile Patrick Bateman, ma qualcosa la facevi.

L’ultima cosa che voglio è mettermi a ritrarre la mia “generazione” (concetto di cui ho appreso l’esistenza solo leggendo l’ultimo Ellis, per dirvi quanto sono fuori dal mondo) e nemmeno voglio buttarmi in sociologia spicciola. Posso solo dire quel che sento e quel che sento è che da quell’humus di crisi nevrotica e nevrotizzante non ne sia uscito niente se non l’assoluta disillusione, un paralizzante senso d’impotenza, la certezza che qualunque cosa farai o proverai a fare è destinata ad andare in malora (un po’ come quel vecchio file word da trecento cartelle?) che il peggio è il meglio che ti puoi aspettare e una sequela di altri allegri pensieri che, se non altro, rendono conto del tasso di suicidi e del consumo di psicofarmaci.

Non importa del talento

Niente a parte il sangue nasce così. Comprimi tutto il rigurgito di vuoto e negatività che trovi in giro e ti esce un personaggio come Alì, il protagonista del libro. Ha qualche talento, ma non frega a nessuno – a lui stesso per primo. I suoi ci sono, ma se non ci fossero sarebbe uguale, così come gli amici, la scuola e il resto, brucia i giorni senza neanche accorgersene stordendosi di fumo tagliato male e fa il possibile perché la vita gli rimbalzi addosso. Forse ora l’immagine di me in mutande seduto in quel tugurio a scrivere una cosa tanto lugubre acquista un po’ più senso.

Quando ho buttato giù la prima trentina di pagine, quella notte, ero incazzato, ed è stato un bene, perché iniziando a pedinare Alì, a sbirciare nella sua vita, mi sono accorto che anche lui era incazzato (lo sono tutti gli adolescenti), ma di nuovo, come la esprimi tutta quella rabbia se allo stesso tempo sei così vuoto? Verso chi ti scagli per rivendicare che esisti, che sei più di un mucchietto di carne che battaglia contro le cimici attratte dalla luce? Io avevo la mia tastiera su cui avventarmi, la pagina bianca e tutto l’immaginario da scrittore mezzo sfigato, ma Alì? Che razza di esito può avere una vita come la sua, portata all’estremo? La risposta è arrivata con Amir.

Tempo prima avevo scritto un raccontino intitolato Halal in cui un ragazzo, plagiato da un piccolo spacciatore di nome Amir, decide di farsi saltare a un concerto. I motivi di fondo erano più o meno gli stessi del romanzo, ma in un racconto non puoi esplorare tutti i retroscena, ti limiti a seguire i rilievi sperando di dare abbastanza colore ai personaggi, trovare una voce nello spazio di poche righe. Amir, il piccolo spacciatore, è rimasto ad aspettare ed è tornato per prendersi Alì. Per dargli l’ultima spinta nel baratro. Il motivo è sempre lo stesso: ammazzarne più che puoi. La sfida (almeno per me) era rendere credibile la discesa all’inferno di un ragazzino disilluso che è spinto all’omicidio non da una ideologia perversa o da qualche religione, ma dal semplice fatto che non esiste niente a parte il sangue.

Qualche freudiano di ferro potrebbe dire che tutto il romanzo è solo una mia sublimazione, il desiderio di far saltare in aria (metaforicamente) l’autore di quella recensione, e qua e là tra le pagine magari troverebbe simboli fallici cui aggrapparsi – c’è una certa katana che farà scorrere un bel po’ di sangue… Mi piace pensare che le storie esistano per conto loro e non debbano esprimere nient’altro che loro stesse. Non so se Niente a parte il sangue riesca a esprimere qualcosa in più del grande vuoto di Alì, della follia di Amir e della loro contorta amicizia. Forse c’è la proverbiale luce in fondo al tunnel, una qualche forma di redenzione per personaggi allo sbando in una provincia violenta, o almeno mi piace pensarlo. Perché per quanto nevrotici, terrorizzati da un futuro a cui non poter fare ritorno, imbottiti di psicofarmaci e antidepressivi, restiamo vivi, ci aggrappiamo comunque alle nostre piccole cose, che sia la tastiera di un pc (nel mio caso), o qualsiasi altra inezia che ci ricordi, almeno per un po’, che Amir ha torto. Che esiste qualcosa oltre il sangue per cui valga la pena vivere. Quale che sia quella cosa, si tratta solo di tenersela stretta. 


Adil Bellafqih è autore del libro Niente a parte il sangue, edito da Mondadori

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