Ci sono storie che iniziano col fuoco e storie che finiscono in fiamme. Quella contenuta nel nuovo romanzo di Salman Rushdie si apre con una donna che, a passo sicuro, si getta in un rogo. Nel luglio del 2022 Rushdie aveva già avuto a che fare col fuoco per oltre trentatré anni e si era abituato alla cocente sensazione di trovarsi costantemente a un passo dalle fiamme. Ma non aveva mai smesso di giocarci o, più prosaicamente, di scherzarci.

«Spero che nessuno si offenda» era la formula standard con la quale incominciava a raccontare praticamente qualsiasi suo aneddoto prima di ridacchiare consapevole di avere appena sfregato la testa di un fiammifero sotto una suola.

Aveva finito di scrivere il suo tredicesimo romanzo, La città della vittoria, Mondadori, e aveva la testa brulicante di riferimenti mistici, storici e letterari: dal Ramayana e del suo amato Hamzanama, che ritornano ciclicamente nella sua produzione, a Cervantes, che lo aveva ispirato per il libro precedente ma che già risuonava in L’ultimo sospiro del moro, al cinema neorealista di Satyajit Ray, che nel 1955 ha diretto Il lamento sul sentiero. Più di tutti, tra una storiella divertente e l’altra in quel tono da zio complice e sempre cautamente sopra le righe, parlava di Italo Calvino e Le città invisibili. Come nel resoconto di Marco Polo a Kublai Khan, Rushdie diceva di avere attinto alla storia degli uomini e dell’Asia, ma anche preso in prestito qualcosa dal mitologico e dal divino, dal grandioso e dall’epico.

In La città della vittoria, in effetti, c’è tutto questo: una lucente e leggendaria metropoli d’alabastro nata da un seme e sgretolata dal succedersi delle dinastie corrotte; il suicidio di massa che apre il romanzo di fronte allo sguardo inorridito e incredulo della protagonista, Pampa, che incontriamo a 256 anni, e che vide tutte le donne di un villaggio gettarsi nel fuoco dopo aver perso i mariti in battaglia; la storia dell’India e della città di Vijayanagar – oggi conosciuta come Hampi –, una splendente capitale distrutta nel 1565 attorno alla quale, leggenda vuole, gli eserciti di difesa si generavano dalla nuda terra; il succedersi di re e regine, generazioni di condottieri e di invasori, magia bianca e nera.

C’è tutto ciò che nell’immaginario di Rushdie compone il romanzo perfetto: quello che lui definisce «pasta per la narrazione» e che lascia fermentare da ogni angolo del suo intorno, reale o narrativo.

Tutto questo, ma anche qualcosa d’altro. Qualcosa che si mescola così omogeneamente al tangibile da lasciare il dubbio che Salman sapesse già cosa gli avrebbe riservato il destino; che il calore del fuoco vicino al quale da trentatré anni marciava impavido, stesse scottando un po’ troppo per non insospettire.

L’indicibile orrore

Verso la fine del libro, Pampa viene condannata all’accecamento da un rivale, l’ultimo di una lunga serie. Per eseguire la condanna, il boia utilizza un ferro incandescente – di nuovo, il fuoco. Dapprima c’è solo dolore, del genere per il quale si invoca una morte misericordiosa. Poi arrivano i sogni. Nella nuova oscurità totale e terrificante di Pampa, cominciano a formarsi immagini confuse e deliranti, figlie della pena insopportabile che le viene inflitta e della paura di vivere per sempre nel buio. Del genere di visioni che Farishta e Chamcha hanno all’inizio di I versi satanici mentre il loro aereo precipita conducendoli a morte quasi certa. Pur sempre immagini.

L’immaginazione della protagonista, generata dall’indicibile orrore, si scatena e mette a sua disposizione una nuova vista; la vista interiore della quale non si libererà più, in grado di mostrarle il presente, il passato e il futuro senza che lei possa decidere dell’uno o degli altri. Per Pampa è una specie di condanna corroborante. Proprio mentre vede scemare l’ultima luce, nuove figure, vivide e colorate, prendono forma e le danno sollievo, per quanto imprevedibili e spesso terrificanti. Vedere qualcosa di brutto è meglio che non vedere niente.

Di per sé l’idea dell’accecamento di Pampa e del suo saper trovare un aspetto salvifico nella tragedia è piuttosto abituale nella creatività di Rushdie. È un tassello in quel mosaico di psicomagia, religiosità e pragmatismo che ha caratterizzato l’incedere della sua narrativa da I figli della mezzanotte in avanti. Però fa venire i brividi se si pensa che in quell’estate durante la quale aveva appena finito di scrivere e se ne andava in giro come sempre a scherzare col fuoco, una fiamma lo avrebbe colpito portandogli via un occhio ed eseguendo, ma solo in parte, la sua famosa condanna – il macigno che doveva trascinarsi dietro ovunque andasse, la fatwa, quella che lui gestiva con semplicità e chiamava «La mia roccia», come se non fosse un peso, ma un appiglio.

Portare la fatwa addosso

A luglio, un mese prima di subire l’attentato che lo avrebbe segnato nel corpo, se non proprio nello spirito, raccontava della liberazione della scrittura come di una specie di continuo ballare su un terreno irto di trabocchetti, sfidando la sorte per vedere quali si riusciva a evitare, ma anche nutrendo una specie di fibrillante aspettativa per cosa sarebbe accaduto se avesse appoggiato il piede nel punto sbagliato.

«Non mi fa paura la morte», diceva. «È un modo per scoprire cosa c’è quando finisce il mondo». Per niente sorprendente per uno che ha passato gli ultimi due decenni a giocare a scacchi su una scogliera come Max von Sydow nei panni dell’Antonius di Ingmar Bergman, sorridendo beffardo al pensiero che il destino cinico e baro potesse fare sul serio.

In un episodio della nona stagione di Curb your Enthusiasm in cui interpreta se stesso, Rushdie dà qualche consiglio a Larry David, terrorizzato per via della pubblica condanna che lo ha colpito dopo l’uscita del suo Fatwa: the Musical!: «Sei irresistibile», gli dice. «Le donne non riescono a trattenersi quando vai in giro con una fatwa addosso», sottolineando quanto sia sexy essere predestinati. E così facendo provoca l’Ayatollah, sbeffeggia il potere miope e il precetto religioso immorale. Forza dell’abitudine.

Questo suo “portare la fatwa addosso” non lo ha definito più di quanto non lo abbia fatto il suo non volersene sbarazzare. Non si è mai veramente nascosto, nemmeno quando, negli anni Novanta, si è tenuto in disparte. Non per machismo, irresponsabilità o fatalismo, quanto perché sottrarsi alla vita pubblica lo avrebbe annichilito più ancora della condanna coranica. Come per la vista di Pampa: guardare in faccia il terrore è meglio che non vedere niente. E anzi, il terrore è stato, per lui, un motore letterario tanto forte e potente da assumere una voce ben riconoscibile, che scorre echeggiante tra le pagine dei suoi libri almeno dal 1989, quando Khomeini decise di benedirlo con il dono di una nuova vista.

Il Rushdie rintanato in attesa del destino sarebbe stato un uomo più morto di quello per il quale la condanna fosse stata eseguita. Più orbo di quanto si trova a essere oggi, mentre affronta la sua lenta ma inesorabile riabilitazione fisica commentando: «La benda sull’occhio mi fa sembrare un duro».

Lo scrittore giapponese Yukio Mishima una volta ha detto: «Chi decide di scrivere, sceglie di tracciare il proprio destino». Rushdie, ancora oggi, ne sembra ben consapevole e per niente spaventato. Ha scelto del suo destino quando ha difeso la sua opera di fronte alla brutalità miope del precetto e lo ha imbracciato ogni volta che il calore del suo rogo personale si è fatto sentire più prepotentemente – scottando Ettore Capriolo e uccidendo Hitoshi Higarashi.

Forse per complicità del tempismo, ma La città della vittoria è il compendio di tutto questo indomito coraggio, steso come un poema epico e inciso nel panorama letterario come un lascito artistico. Se c’è un messaggio che risuona forte e chiaro è quello che Salman Rushdie non è ancora pronto per smettere di scherzare col fuoco.

© Riproduzione riservata