Caro Pietro, come stai? So che ricevi molte lettere, e chissà se avrai il tempo di leggere la mia.

Ti penso ogni giorno, mi chiedo cosa fai, se ti piacciono i libri, se in prigione ti hanno lasciato alcuni dei tuoi vestiti. Siamo vicini, lo sai? Io abito a Piacenza, e adesso che ti hanno mandato a Milano siamo a mezz’ora di treno. Potrei venirti a trovare se ti va, per chiacchierare un po’.

Ho letto che ti piace Don Johnson, Miami Vice te lo fanno guardare la sera?

Io vado pazza per i fenicotteri della sigla, non li ho mai visti dal vivo, ma un giorno avrò dei fenicotteri domestici nella mia villa.

Hai visto che anche Don Johnson mette le giacche tipo le tue? Però tu sei più carino. Sai che le porto anche io? Per il mio compleanno me ne sono fatta regalare una con il collo alla coreana, quasi identica alla tua. Aggiungo alla lettera una mia foto in cui la indosso, così la vedi (e vedi anche me).

Non credo a chi ti chiama “mostro”, non ascolto quello che dicono tutti. Ho letto che sei entrato in seminario a undici anni, e che quando ti hanno mandato a casa eri triste perché lì stavi bene. Pensa che a me sarebbe piaciuto tantissimo andare in collegio... So che in molte te lo scriveranno, ma davvero io capisco cosa senti. Siamo simili. Ho compiuto diciotto anni da poco, forse mi fanno entrare in carcere, non so se ci vogliono permessi speciali ma non credo siano così malvagi da impedire a chi ti vuole bene di salutarti. Penso dipenda da te, se dai l’ok alle guardie magari è più facile? Tu invece gli anni li compi a luglio. Ti faranno almeno una torta? Altrimenti te la porto io!

Intanto, se vuoi, ti mando qualcosa che ti va di leggere. Se mi scrivi i tuoi gusti sono certa che troverò il libro perfetto per te. Ti lascio il mio indirizzo, e spero di avere presto tue notizie.

Un bacio.

P.S. Il gel te lo fanno usare ancora? Dimmi se vuoi che te lo spedisca e quale marca preferisci.

Cosa fai quando ami qualcuno che non sa nemmeno che esisti? Interpreti segni, unisci puntini immaginari che partono da quella persona e arrivano a te: “Noi due, per sempre insieme”. Mia sorella ama Miguel Bosé, io amo Pietro Maso. Prima di Erika e Omar, prima di Olindo e Rosa, ci siamo noi, i fidanzati assassini, per sempre insieme, anche se lui non lo sa.

Io glielo scrivo nel 1992, lui non mi risponderà mai.

Pietro uccide i suoi genitori nella notte tra il 17 e il 18 aprile del 1991, lo stesso periodo in cui io vado in frantumi. Undici padellate per la madre, la spranga per il padre, e poi sacchetti e cuscini con cui soffocarli, non volevano morire. I suoi amici indossano una maschera da diavolo, lui rimane a volto scoperto.

Inizialmente – come ho fatto anche io – aveva pensato al veleno per topi, poi a far saltare in aria la casa: «C’è chi dà la vita, e io sono colui che può toglierla» dirà molti anni dopo ricostruendo la sua storia in una lunga intervista in cui racconterà come, a volte, si uccidano i genitori anche in altre forme. Lui ha scelto la più evidente, e adesso espia anche per me.

Quando accadono omicidi feroci c’è sempre qualche psicologo chiamato in tv a spiegarci perché il mondo è brutale, e a tentare di consolarci: se ascoltiamo le sue parole, se indossiamo i suoi maglioni colorati, nelle nostre famiglie non accadrà. Seduto su una comoda poltroncina lo psicologo dice che in fondo basterebbe eliminare quella parte antica di noi che ci tiene legati a loro, i genitori. Tante grazie. E poi Pietro aveva anche bisogno di soldi. Se li fumava a colazione, gli servivano per essere Pietro Maso.

In carcere Pietro si preoccupa che la sua pelle sia sempre ambrata, chiede che gli venga portato un autoabbronzante, prende il sole appena può: quando gli altri camminano in cortile o giocano a calcio, lui è fermo immobile come una sfinge, a captare i raggi. Vuole il suo profumo, pensa a dove sono finiti tutti i suoi vestiti: possono portargli almeno lo stretto indispensabile? E poi ci sono le lettere che riceve. All’epoca non pensavo di avere un numero così fitto di rivali, poco tempo fa ho scoperto che eravamo in migliaia a scrivergli da tutta Italia. Molte erano più determinate di me, lo hanno fatto ogni santo giorno. Per anni.

Alcune aggiungevano alle loro parole una ciocca di capelli, altre (come me) una foto, le più spregiudicate una Polaroid in mutande e reggiseno. Lui non rispondeva a nessuna, ma ha raccontato che leggeva a voce alta le nostre lettere ai compagni di cella e faceva girare le foto. Le lettere poi le buttava, conservava solo le polaroid delle più carine, e dietro si appuntava nome, cognome e indirizzo, casomai le volesse andare a trovare, uscito dal carcere, in una sospensione d’onnipotenza che non lo faceva tremare davanti alla possibilità di un trentennio.

Sono sicura che hanno riso guardando la mia foto e che lui non mi ha conservata nell’esercito “delle belle”. Di questa cosa ancora mi dispiaccio. Se mi avesse visto dopo qualche anno avrebbe cambiato idea.

Io le sue foto le ho conservate tutte. Mi sono costruita un album dedicato a lui: archiviate in un quadernone con gli anelli, infilate ciascuna nella sua busta di plastica trasparente, ho schedato le immagini di Pietro con la giacca rossa dentro la macchina della polizia, lui seduto fra i suoi amici al processo, e ancora lui, sorridente, mentre aspetta la condanna nel suo doppiopetto blu – il foulard a pois al collo –, i capelli perfetti. Ho sognato milioni di volte di appoggiare la mia mano sopra la sua testa, ma in modo leggero, per non spettinarlo.

Pietro è il primo a Montecchia di Crosara a indossare le giacche con il collo alla coreana: se le fa fare da sua zia sarta. È il primo maschio a salire sul cubo in discoteca, gli spetta di diritto. «Ridevo ma ero morto dentro», e ogni volta costruisce delle entrate spettacolari: con la tuta da sub, l’accappatoio e gli anfibi e, mentre lo stupore attorno satura l’aria di rispetto e adorazione, lui è già nel domani: «Cos’altro posso fare per essere guardato?»

Al processo, nel corso della stessa udienza si cambierà d’abito tre volte, approfittando delle pause.

Pietro sogna in grande, il mondo perfetto per lui si trova tra i motoscafi e i fenicotteri rosa di Miami Vice, «il fascino della Ferrari bianca, ecco cos’è la personalità», dirà. L’eredità che rivendica con l’uccisione serve a riprodurre quel mondo.

Dopo i ventidue anni di carcere, soppesando cosa è successo: «Non hai più i genitori, non hai più i tuoi vestiti, non hai più nemmeno gli amici».

Quando gli chiederanno una spiegazione, ricostruirà le sue cene in famiglia: «Non ho mai sentito parole d’affetto, anche se c’era, certo. La sera, invece di buttare sul tavolo la nostra vita, ognuno stava nascosto. E semplicemente: Come va? Tutto bene. E in questa frase che tutti quanti noi diciamo io mi chiedo: ma tutto bene che?»

Anche noi, a pranzo o a cena, ci ripariamo dietro ai gatti. Ne abbiamo uno, Cagliostro, che ho salvato da un pozzo. I suoi fratelli affogati, lui no, lui me lo sono portato via.

Credo accada in realtà in ogni famiglia. Cani, gatti, pesci, criceti, conigli e pappagalli. Durante le feste, a tavola, tutti spostano l’attenzione sugli animali: le vocine con cui li chiamiamo sono implorazioni a farsi carico dell’attenzione e delle aspettative di amore. Prenditi carezze e squasimi tu, occultami da tutto.

Mia madre trova le “brutte” copie della mia lettera, l’ho riscritta molte volte, ho fatto delle prove, ho cambiato penna, prima ho usato una bic verde profumata, poi ho pensato che avrebbe trovato la mia scelta provinciale (adesso lui è diventato milanese, l’aria di San Babila gli arriva anche in carcere), e ho ricopiato il tutto con una penna a punta fine, nera. Mi sembrava più elegante.

Quando torno da scuola, mi aspetta a casa con la mia calligrafia color rana appallottolata fra le mani.

«Cos’è questa?»

«Perché ce l’hai tu? Hai frugato nelle mie cose!» Mi ha scoperta, e la rabbia vince sulla colpa.

«Ma sei impazzita! Scrivi a un assassino, adesso! Ma cosa vuoi? Uccidermi? Ucciderci tutti?» Si mette a piangere.

«Ma smettila, era una pagina di diario, non ho scritto niente a nessuno, lasciami stare». E me ne vado, scappo in camera, ho paura, come faccio adesso?

Lei è una furia, mi insegue, apre la porta (ha tolto tutte le chiavi, in casa nostra non c’è una porta dietro la quale barricarci, nemmeno in bagno) e mi getta addosso delle babbucce con i campanellini che appartenevano alla nonna.

«Cosa ci facevano queste nascoste tra le tue cose? Dove le hai prese?!»

Mentre vengo lapidata dalle pantofole che franano su di me, penso che il trillo dei campanellini è proprio un bel suono. Le raccolgo e non riesco a dire niente. Ma lei ha capito tutto. Ha unito i puntini.

«Se tuo padre fosse vivo non faresti così». Quando non sa più come colpirmi mi scaraventa addosso l’impotenza del suo ruolo. E la colpa del mio.

«Tanto lui non c’è!» rispondo urlando. E so che così la ferisco a morte, ma almeno la smetterà di parlarmi, di chiedermi chi sono e cosa ho fatto.

In carcere Pietro lavora, partecipa alle attività culturali, interpreta l’angelo in Jesus Christ Superstar, il musical che mettono in scena a Natale, poi accetta di incontrare una ragazza che gli scrive. Lei sì, io no.

Dirà di lei: «Aveva un faccino pallido, perfetto. Da Madonna». In una sua lettera, lei gli scriverà: «Non approvo il tuo gesto, ma tu rappresenti l’ideale di ragazzo che io cerco». Il loro primo bacio sarà davanti alle guardie, in parlatorio.

Grazie all’intervento di un padre spirituale Pietro verrà perdonato dalle sorelle, ma quando uscirà dalla prigione, nel 2013, qualcosa andrà storto: di nuovo i debiti, la droga, i soldi che non bastano. Una conversazione telefonica fra Pietro e un amico verrà intercettata, la frase che Pietro pronuncerà a proposito delle sorelle – «devo finire il lavoro iniziato venticinque anni fa» – gli porterà una denuncia.

Si ricomincia, di nuovo.

Nel 2016 Pietro verrà ricoverato in una clinica psichiatrica per turbe mentali e dipendenza dalla cocaina, quando uscirà se ne andrà in Andalusia, dove farà il cameriere. Lì il suo cognome sarà solo un cognome.

Ogni tanto metto ancora il suo nome su Google e vado nella sezione “notizie”. Ho scoperto che è tornato a vivere nel veronese, e lavora come giardiniere. Poco tempo fa ho anche letto che un’insegnante di Salerno, residente a Brescia, avrebbe lasciato scritto nel testamento di voler destinare tutto il suo patrimonio – 850.000 euro, i risparmi di un’esistenza morigeratissima – a Pietro «per rifarsi una vita nel segno dell’onestà». Probabilmente era una frottola. Eppure la beffa di un’eredità che ti cala dal cielo come lo Spirito Santo, senza fare nulla, dopo che tu hai massacrato, ucciso e ti sei dannato proprio per un’eredità, mi ha fatto ridere. Ero, in fondo, contenta per lui: solo i soldi ci proteggono.

Poco prima che Maso uscisse dal carcere mi sono sposata con Nicola. Quando sua madre ha fatto allusioni in merito al repentino arrivo di un nipote (la mia se n’è guardata bene, terrorizzata dalla sola idea), ho pensato alle parole di Maso: «Io non potrei mai avere un figlio, verrebbe ricordato come il figlio del mostro, mi ucciderebbe, ma non come ho fatto io con i miei, semplicemente guardandomi negli occhi».

Si passano molte cose dal sangue. Io non ho voluto passare le mie.

Questo brano è tratto da Strega comanda colore, Mondadori 2022

© Riproduzione riservata