Il padre spirituale di tutti i monaci, l’eredità viva di sant’Antonio

Insieme alla folgorazione di Saulo sulla via di Damasco, la conversione più famosa nella storia del cristianesimo è quella di Agostino. Il retore africano la racconta verso la fine dell’ottavo libro delle Confessioni, opera letteraria senza precedenti e autobiografia interiore rivolta a Dio stesso e che nei giorni scorsi è stata evocata dal papa agostiniano davanti a un gruppo di studenti. «A te chiediamo, in te ricerchiamo, a te bussiamo: così, così otterremo, così troveremo, così ci sarà aperto». Sono queste le ultime parole del capolavoro (tradotto da Gioacchino Chiarini per la Fondazione Valla) che Peter Brown nel suo Agostino d’Ippona (Einaudi) ha definito «di profonda autenticità psicologica». Sullo sfondo della conversione del pensatore più geniale e influente dell’antichità cristiana si staglia la figura di un altro santo, vissuto in Egitto un secolo prima. Si tratta di Antonio, il “padre dei monaci”, sul quale si è da poco tenuto – per iniziativa della comunità di Bose – il convegno ecumenico di spiritualità ortodossa che da oltre trent’anni riunisce nel vitalissimo monastero piemontese esponenti di diverse confessioni cristiane. La conversione di Agostino È la fine d’agosto del 386 quando Agostino, da quasi due anni professore di retorica a Milano, viene visitato da Ponticiano, un suo conterraneo cristiano funzionario della corte imperiale a Treviri. L’amico vede su un tavolo un libro con le lettere di san Paolo e gli racconta come qualche tempo prima due suoi colleghi si erano convertiti leggendo un altro libro trovato in casa di alcuni cristiani: la Vita di Antonio scritta da Atanasio, il celebre vescovo di Alessandria difensore della fede definita dal grande concilio di Nicea. Il racconto della conversione del trentaduenne Agostino, che diverrà un tema ricorrente nel teatro gesuitico di età barocca, si fa incalzante. Con un prologo, quando una dozzina d’anni prima il giovane uomo era stato colpito, anche lui, da un libro: l’Ortensio di Cicerone, con il suo invito alla filosofia. L’inquietudine ora si fa urgente, insopportabile, e il brillante retore non vuol farsi vedere dall’amico Alipio mentre a stento ricaccia le lacrime. Si allontana così per piangere, come lo raffigura il Beato Angelico in una tempera nitida e coloratissima. A un tratto Agostino sente una voce, «come di fanciullo o fanciulla, non so, dalla casa vicina che cantando diceva e più volte ripeteva: “Prendi, leggi; prendi, leggi”». Non può essere un gioco quella cantilena infantile, voce misteriosa che lo sta invitando ad «aprire il libro e leggere il primo capoverso in cui m’imbattessi. Avevo infatti sentito di Antonio ch’era stato ammonito da un passo del Vangelo», ascoltato dal giovane egiziano quando era entrato in una chiesa. Il libro di Agostino è quello di san Paolo e, com’era avvenuto per Antonio all’ascolto del vangelo, si rivela un fatto decisivo. Otto mesi più tardi, tra il 24 e il 25 aprile 387, notte di Pasqua, il vescovo di Milano battezza Agostino, che entra «solo e completamente nudo in una profonda vasca piena d’acqua. Per tre volte Ambrogio gli avrebbe tenuto le spalle sotto il getto dell’acqua» immagina Brown. Un santo irresistibile, tutti pazzi per san Francesco La vita Non è un caso che la Vita di Antonio compaia due volte nel lungo racconto della conversione di Agostino. Nel 357 – solo un anno dopo la morte del monaco egiziano – la biografia era stata scritta da un personaggio molto in vista, che l’aveva conosciuto bene, e per questo era stato ricordato nelle ultime volontà del monaco ultracentenario: «Dividetevi le mie vesti, e al vescovo Atanasio date una pelle di pecora e la coperta su cui dormivo, che egli mi diede nuova, e che io ho consumato. L’altra pelle, datela al vescovo Serapione. Voi tenetevi la tunica di cilicio; e per il resto, vi dico addio, o figli. Antonio lascia questo mondo, e non sarà più con voi». Composta in greco e molto presto tradotta in latino (più volte), copto, siriaco e altre lingue orientali, la biografia scritta da Atanasio è il libro di maggior successo dell’antichità cristiana, fondamentale nella propaganda letteraria del monachesimo, che reagisce alla mondanizzazione di un cristianesimo ormai consolidato e sempre più riconosciuto dall’impero. Il protagonista, Antonio, nasce in un villaggio del Medio Egitto nel 251 da una famiglia cristiana agiata e a diciotto anni vende i suoi beni, dopo aver assicurato il sostentamento dell’unica sorella: dà tutto ai poveri e si fa eremita. Per decenni conduce una rigorosa vita ascetica nel deserto, combattuto e vessato dai demoni. Da qui ha origine il celeberrimo tema delle “tentazioni di sant’Antonio” che da Hieronymus Bosch fino a Max Ernst e Salvador Dalí attraversa quasi mezzo millennio di raffigurazioni artistiche. A queste si aggiungono fantasie letterarie e tradizioni popolari, come i falò in occasione della festa del santo – considerato nelle campagne dell’Europa medievale protettore degli animali e rappresentato come un abate accompagnato da un fedele porcellino – che il 17 gennaio segnavano l’inizio del carnevale. Sant’Agostino e universalismo, le radici del pontificato di Leone XIV Padre spirituale Soprattutto l’«amico di Dio» finisce per attirare molti: diviene così «padre dei monaci» grazie alla «sua stessa vita» ha osservato l’orientalista Sabino Chialà, priore di Bose. Per questo compare «il suo nome là dove ci si interroga sulle origini del monachesimo, anzi, dove ci si interroga su una vita interamente dedicata a Dio» nota in un bel libro (Antonio, il Mulino) lo storico e teologo evangelico Peter Gemeinhardt. La biografia atanasiana di Antonio era invece stata aspramente criticata nel 1913 da un altro protestante tedesco, il grande storico del cristianesimo antico Adolf von Harnack, massimo esponente della teologia liberale, in quanto lo scritto sarebbe responsabile dell’«ingresso nella chiesa di demoni, miracoli e tutti questi spettri». Il razionalismo però non è riuscito «a far sparire i demoni dal nostro mondo» e l’antico monaco egiziano resta un maestro «dell’arte della lotta contro il peccato e il male» ha detto a Bose l’abate Michel Van Parys. Antonio «resta anche il modello dell’autentico padre spirituale», in un tempo in cui le chiese cattoliche e ortodosse stanno vivendo «una grave crisi della paternità spirituale» ha riconosciuto l’autorevole benedettino belga. Per rimediarvi non bisogna dimenticare il suo insegnamento: «Le Scritture bastano per la nostra istruzione, ma è bene incoraggiarci a vicenda e confortarci con le parole. Voi come miei figli, dicendo ciò che sapete, portate qualcosa a vostro padre, e io, maggiore per età, vi trasmetto quello che so e di cui ho fatto esperienza» diceva Antonio ai suoi. Autentiche sono una serie di detti e sette lettere dettate in copto, lingua materna del monaco egiziano. Per innalzare a Dio «le mani del vostro cuore, cioè lo Spirito che agisce in voi», invocando il dono del suo «grande fuoco invisibile». Con un’ultima raccomandazione, sussurrata prima di morire: «Respirate sempre Cristo». San Luca, che autentico scrittore: parola di Emmanuel Carrère