Sono i gesti che contano. Soprattutto in un’epoca di algoritmi dominanti. Atti semplici, talvolta banali che però hanno il potere di conservare il senso umano delle cose. E dello sport, che della vita umana è il paradigma probabilmente meglio riuscito. Nell’Augusta Masters di golf (“The Masters” come viene chiamato nella comunicazione globale, a rimarcarne l’assoluta unicità), primo torneo major dell’anno, c’è un gesto che sancisce la differenza tra quell’evento e il resto del mondo: il vincitore ottiene come indelebile segno del suo successo, alla stregua della corona d’alloro di cui potevano fregiarsi i vincitori di competizioni sportive nell’antica Roma, il diritto a indossare una giacca verde.

Caratteristica della medesima: tonalità denominata (ça va sans dire) “Masters Green”, monopetto con spacco posteriore, tessuto di cotone tendente al grezzo, taglio non esattamente assimilabile a quella che un qualunque sarto partenopeo proporrebbe a un suo cliente: diciamo pericolosamente tendente all’effetto tubo di stufa. Eppure la Green Jacket e il capo d’abbigliamento più celebre dello sport mondiale. E il gesto di cui sopra è molto semplice: chi ha vinto The Masters l’anno prima deve aiutare il nuovo vincitore a indossarla. Deve per un attimo trasformarsi in caddie del neo leader, accettarne il successo e inchinarsi ad esso. Trasformandosi per qualche secondo in quella che dovrebbe essere il sublimato della natura sportiva, ammesso che tale natura sia mai esistita davvero: chi perde omaggia chi vince e lo aiuta a prendere il suo posto.

Armocromia sportiva

Qualcuno potrebbe dire: ma quale verde Augusta. Ci sono maglie sportive di colori più conosciuti e che trasmettono vibrazioni assai più intense: il nero degli All Blacks ad esempio. O il rosso del Liverpool e dello United. Oppure la maglia gialla pensata da Henri Desgrange e dalla dalla rivista Auto (che poi sarebbe diventata l’Equipe e che si stampava su carta gialla) per il vincitore del Tour de France; e quella a pois verdi in campo bianco di cui si può fregiare, nella Grande Boucle, chi è in testa alla graduatoria degli scalatori. E poi la maglia rosa del Giro, dello stesso colore della carta dell’organizzatore Gazzetta.

Ma si tratta di outfit tecnici, legati alla prestazione nell’immediato, come il bianco obbligatorio (chissà fino a quando) sui campi di Wimbledon. Ma la giacca che può indossare chi trionfa in Georgia è la testimonianza di un potere che permane almeno per un anno. Perché subito dopo la giacca con il nome del suo possessore ricamato sul taschino deve essere restituita al circolo. Che nel suo guardaroba ospita in sequenza quelle di Arnold Palmer e Jack Nicklaus, di Seve Ballesteros e Tiger Woods, di Josè Maria Olazabal e Jon Rahm, tutti vincitori ad Augusta.

Ma quest’anno, al termine del torneo che inizierà giovedì 11 per concludersi domenica 14 il gesto della giacca potrebbe rivestire un significato assai politico: con un giocatore del PGA Championship, il principale circuito professionistico al mondo, che deve aiutare un vincitore magari appartenente alla LIV golf del principe saudita bin Salman, o viceversa. Due entità di fatto in guerra più che in concorrenza da due anni anche se nel giugno scorso a sorpresa avevano annunciato la loro unificazione.

Una guerra che meglio di qualunque altra è simbolo del tentativo dei sauditi di accaparrarsi tutto lo sport mondiale (ultimo atto: le Wta Finals di tennis che si giocheranno a Riad per quattro anni a partire dal prossimo ottobre) aggiudicandosi i migliori interpreti a colpi di ingaggi miliardari. E provocando di conseguenza una frattura fra i giocatori, spesso anche solo per motivi di vil pecunia: c’è chi (l’amatissimo McIlroy) della Liv non ne vuole nemmeno sentir parlare, chi invece vorrebbe andarci magari a godersi l’ultima fetta di carriera ma non è stato chiamato, chi vorrebbe restare nel Pga ma guadagnare di più.

Rahm vs McIIroy

L’ingaggio da parte del principe del basco Jon Rahm (vincitore ad Augusta l’anno scorso sotto la pioggia) per la modica cifra di 550 milioni di dollari è stato lo spartiacque: da allora mugugni e saluti appena accennati sono diventati, fra i top player, una consuetudine. Ancora più evidente in un ambiente dove la frequentazione pressoché continua crea da sempre un ambiente collegiale fra la maggior parte di loro.

Se, per dire, il “saudita” Rahm dovesse incoronare lui il “lealista” Mcllroy si tratterebbe di un’immagine che di sicuro provocherebbe qualche problema di digestione in bin Salman e più di un motivo per sorseggiare champagne per quelli del circuito Pga.

La “fusione” fra Liv, Pga e il circuito europeo è nei fatti ancora di là da venire e il contesto è più quello fra due parti in cui una cerca di annichilire l’altra e l’altra di non farsi divorare. Indossare la giacca sarebbe fondamentale.

Del resto nell’augustissimo Augusta National Center è anche vero che i guai “politici” si comportano alla stregua dei cestini per la spazzatura sparsi lungo i fairway: si sollevano dal nulla a richiesta e poi nel nulla scompaiono per non turbare la skyline del percorso.

Unico fra i quattro major a disputarsi da sempre nella stessa sede (ma le caratteristiche del tracciato possono evolversi) The Masters convoca i giocatori al proprio torneo con un cartoncino pregiato e si ritiene al di sopra delle beghe politico-strategiche. Quest’anno, ad esempio, saranno tredici i tesserati della Lega araba che giocheranno ad Augusta fra i quali anche l’invitato speciale Joaquin Niemann, cileno, che ha vinto tanto nel Liv quest’anno ma è oltre la cinquantesima posizione del ranking mondiale.

Gli uni e gli altri si incontrano praticamente solo nei quattro major visto che per il resto dell’anno frequentano circuiti diversi: e quando si incontrano i loro match non sono più solo un confronto personale in uno sport individualissimo, dove la sola Ryder Cup (Stati Uniti versus Europa) è l’occasione per competere a squadre.

Verso Parigi

Quest’anno il tutto è condito pure dalla salsa olimpica. Visto che i 60 posti per il torneo olimpico vengono stabiliti in base al ranking ufficiale, ma tale ranking non riconosce i risultati del circuito saudita, ecco che la frittata è fatta. Con i soli tornei major (prima del 17 giugno, data ultima per ottenere il pass olimpico, si giocheranno il PGA Championships a maggio e lo Us Open dal 13 al 16 giugno) che possono assegnare punti buoni per Parigi. Non che i golfisti abbiano mai dimostrato di possedere uno smisurato senso olimpico: ma tant’è.

E chi ama il golf da giovedì non penserà a lotte intestine ma a seguire Tiger Woods (se gareggerà) per capire se il suo fisico gli permetterà almeno di superare il taglio; a scrutare Rory McIlroy per cercare di intuire se finalmente riuscirà di nuovo a conquistare un major (da dieci anni fa cilecca) e magari proprio quello dove non ha mai vinto; a osservare i drive di Anthony Kim (pure lui uomo-Liv) che dal 2012, quando veniva considerato l’anti-Tiger, era letteralmente scomparso dai radar per un infortunio e ora è tornato dalle tenebre ed è stato invitato; al baby suo omonimo Tom Kim, sudcoreano di 21 anni che palesa una straordinaria somiglianza con il leader nord coreano Kim Jong-un, diventato una star soprattutto grazie a Full swing, la docuserie Netflix; al nonno (manco a dirlo: Liv) Phil Mickelson che l’anno scorso fu secondo.

E magari a scrutare vicino al tee della buca sette, il ghigno di Greg Norman, l’immarcescibile Squalo Bianco, anima del circuito saudita, che magari sta pensando all’anti Ryder Cup da organizzare nel prossimo futuro. Del resto: squalo una volta, squalo per sempre.

© Riproduzione riservata