E dunque, la lingua che parliamo è discriminatoria. E dovrebbe essere più inclusiva. Leggo le frasi che ho appena scritto, leggo anche questa che sto scrivendo adesso, guardo le parole che si formano sullo schermo mentre pesto i polpastrelli sulla tastiera: le parole sono cose, sono oggetti fuori di me. Le contemplo. Le constato. Che cosa vogliono da me? Rappresentarmi? Quanto mi appartengono? Quanto mi contengono?

L’idea che la lingua debba rappresentarci è puerile. Mi impressiona che a propugnarla ci siano anche scrittori e scrittrici. Proprio loro, che dovrebbero sapere che cos’è la lingua, averne una coscienza più acuta, conoscere l’impostura che sta al fondo di ogni parola, di ogni discorso.

Le parole non ci rappresentano. Nessuna parola, mai. Nella diffidenza verso le parole, lì sta la nostra possibilità, il nostro posto nel mondo: che non è dentro le parole, ma nell’ombra che le parole gettano di fianco a sé stesse. Le parole ci sono necessarie perché sono il luogo da cui siamo esclusi; e questa esclusione ci fonda, ci fa essere consapevoli di noi: diversi da ciò che diciamo, diversi dalle nostre stesse parole.

È in questa esclusione che risiede la possibilità di una politica. Nel non appartenere in pieno al linguaggio, nel prenderne le distanze. Credere che le parole possano accomunare, rispettare, accogliere, contenere, rappresentare, includere, è un errore politico, perché è un’illusione. Nessuna parola è abbastanza rispettosa. Nessuna parola è abbastanza accogliente. Pensare di poter essere inclusi nelle parole è un abbaglio. Lo è per chiunque, di ogni genere e sesso e età e classe. Questa illusione è il contrario della politica.

Parlare contro le parole

Noi parliamo contro le parole, sempre. Non c’è altro modo di parlare se non questa. Ogni volta che apriamo bocca, ogni volta che scriviamo una frase noi stiamo criticando la nostra lingua. Anch’io, adesso, sto scrivendo contro le parole, contro la parola “io”, contro la parola “contro”, contro la parola “la”, contro la parola “parola”.

Se c’è qualcosa che ho imparato – di più: che ho vissuto dall’interno – parlando e scrivendo in tutti questi anni, è la natura aliena della lingua. La lingua è una specie di animale cresciuto dentro di me, che abita nel profondo del mio petto, al centro del mio cranio, sulla punta delle dita. È la cosa più intima e più estranea che ho. È intima, perché si è installata nei miei pensieri più occulti; è portatile, mi segue dappertutto, è un’inquilina talmente domestica che non ci faccio nemmeno più caso, pretende di essere parte di me. La uso, anzi, la convoco, per dire la mia segretezza, i miei stati d’animo più personali; mi serve a precisare in che cosa le mie idee divergono da quelle degli altri; mi soccorre nel differenziarmi, nel fondarmi.

Mi aiuta a distinguere ciò che approvo da ciò che rigetto. Non posso farne a meno. Eppure è la cosa più estranea che esista. È la più estranea, ma è conficcata dentro di me: è questa la sua contraddizione, il contrasto che essa mi obbliga a vivere.

L’italiano è la nostra lingua straniera

La lingua è una foresta, un museo, una fogna, un ricettacolo di desideri e aspirazioni dei morti, delle generazioni che ci hanno preceduto. Ci arriva dalle profondità dei secoli. Mi è stata consegnata dalla mia famiglia. Se per qualche caso del destino fossi finito lontano da qui, adesso parlerei e scriverei in una lingua straniera. Ma anche l’italiano, per me, è una lingua straniera. Anche se lo parlo da sempre. Anche se ho cominciato a sillabare “mam… mma…” pochi mesi dopo essere venuto al mondo.

Nella compresenza di intimità ed estraneità c’è il mio patimento della lingua, il mio godimento della lingua. Di tutte le parole che dico e che scrivo. Anche quando chiedo un caffè al bar.

In nessun modo io desidero che la lingua coincida con quello che sono. Preservo come il più prezioso dei miei beni questo mio non coincidere mai del tutto con la lingua che parlo, con le frasi che dico e che scrivo. C’è un margine, oltre l’orlo delle parole: lì, in quel margine, sto io, che non sto né nell’avverbio “lì”, né nel verbo “sto”, né nel pronome “io”. Sto sempre accanto, oltre l’orlo, nel bordo fuori le mura, sul pomerio: “un po’ più in là, da lato, da lato”, come dice un verso di Andrea Zanzotto.

Nella sconnessione, nella scommessura fra me e la mia lingua io trovo la mia posizione, la mia consistenza. E in questo mio disagio c’è la mia salute: sta nella mia insofferenza per la lingua, per come non mi rappresenta mai, per come non coincide con quello che sono, con quello che voglio, con quello che volevo dire e che non era mai esattamente questo, ma, ecco, l’ho detto lo stesso, l’ho scritto lo stesso. La lingua è la più benefica delle alienazioni.

L’inadeguatezza, l’approssimazione, la discriminazione della lingua mi genera, mi produce: la mia presenza poggia i piedi su quella sproporzione, è lo sbilanciamento che mi spinge in avanti. Non sono mai completamente sagomato dalle parole. Il giorno in cui coinciderò con le parole che dico e che scrivo e che sento dire di me, morirò. Anzi, diventerò una specie di sasso vivo, scolpito e paralitico, qualcosa di peggiore della morte.

Se scrivo è per questo. Perché critico la lingua dall’interno, maledico le parole, le ammiro, le detesto, le elogio, le irrido, le venero, le ripudio; e tutto questo lo faccio parlando, dicendo, scrivendo. Parlare, scrivere è il mio modo di dissentire dalle parole. Ogni mia parola è un dissidio contro la lingua.

Sette secoli fa, dall’insoddisfazione di un fiorentino per una lingua usata dai mercanti, dagli artigiani, dai politici, è scaturito un poema, cioè una lunghissima maledizione contro le parole, che si sono tese fino a strapparsi per descrivere Dio.

La lingua non è mai all’altezza

La lingua non è all’altezza, la lingua è inadatta, ce lo dice lei stessa in continuazione. Una delle cose più belle al mondo, i riflessi di sole sull’acqua che proiettano reticoli di luce sugli scafi delle barche e sugli intonaci delle case, in italiano si chiama “gibigianna”, una delle parole più goffe che si potessero concepire per nominare una simile meraviglia. Nella dismisura fra la bellezza del mondo e la miseria della lingua c’è una profonda saggezza, una lezione di umiltà delle parole: la lingua dimostra tutta la sua goffaggine, è ridicola. Ce lo dice chiaramente, che è inadeguata; lo fa per difenderci dalle nostre illusioni. Non confidiamo nelle parole, non chiediamogli quello che non possono darci. Sono delle poveracce, e anche delle poverette. Fanno pena; fanno quello che possono. Si meritano ironia e compassione. Diffidare della propria lingua è il principio di ogni filosofia.

Ogni parola dell’italiano contiene le frustrazioni e le aspettative sulla vita che avevano i latini, i greci, i nostri antenati medioevali e moderni. È un assurdo deposito di delusioni, di infamie, di slanci, di pregiudizi.

La lingua italiana prende la realtà e la spacca in due, divide gli esseri in maschi e femmine, da una parte orgoglio tavolo amore lombrico cielo bonifico, dall’altro invidia caffettiera generosità giraffa montagna procedura.

La lingua spacca in due i fenomeni, le cose che succedono: vedo una sagoma che si muove verso di me nello spazio, e la lingua mi costringe a dire: “Roberto cammina”, spacca in due il mio amico Roberto, separa il suo nome dal verbo, stacca la sua presenza dall’azione che compie: da una parte “Roberto”, dall’altra “cammina”. Eppure io vedo un tutto unico, un corpo che mi viene incontro e sorride salutandomi.

È vantaggioso sapere di essere esclusi dalla lingua. E dev’essere invidiabile percepirlo in maniera più intensa, sulla propria pelle, a causa degli usi grammaticali, dei vocaboli in vigore, dell’egemonia di un lessico respingente. È la condizione ideale. Non è ancora la verità, ma è un approssimarsi alla verità. Protegge dalla menzogna della lingua, dalla sua impostura fondamentale, dall’illusione infantile di potersi ritrovare in lei, di volersi riconoscere nelle parole.

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