Tiziano Ferro a un certo punto ha deciso di sciogliere l’incantesimo imposto dagli altri. Ha afferrato il suo personaggio, la popstar dal successo internazionale, l’ha scontornato, e ha lasciato scivolare fuori la persona. Raccontando tutto. L’omosessualità, la bulimia, il body shaming, la depressione. Elogi, critiche. E ora in Ferro, il documentario per Amazon, l'alcolismo e i gruppi di recupero.

Ma anche la sua nuova famiglia, a Los Angeles, col marito Victor e le amiche Bianca Balti, Elisabetta Canalis, Brigitte Nielsen, per sfuggire alla fama che ha rischiato di togliergli la voglia di vivere. Di nuovo: critiche, elogi. Simbolo di libertà, gli hater dicono: vittimismo.

Accetto miracoli

Lo raggiungo su Zoom a pochi giorni dall’uscita di Accetto miracoli: l’esperienza degli altri, il suo nuovo album tutto di cover, per parlare delle trasformazioni americane in atto e soprattutto delle sue trasformazioni, passate e in corso: da disadatto di Latina, espressione che lui stesso rivendica – «ci nasci con un dna da impopolare» – fissato coi manga e la pallavolo, a pioniere di un nuovo immaginario, nel quale i ruoli si possono ibridare e i copioni riscrivere, gli idoli delle ragazzine possono sposare un uomo e raccontare, a viso scoperto, gli effetti di un sistema di potere repressivo, per appropriarsi dei giudizi depositati e ampliare i nostri margini del possibile.

In questo momento sei a Los Angeles, dove vivi. Come vanno le cose con la pandemia?
Io vivo in California, una bolla completamente separata da tutto ciò che si vede e si sente rispetto agli stati centrali e del sud, dove per esempio ci sono molti negazionisti. A marzo qui la California è andata in lockdown, Los Angeles era deserta, la gente non usciva. E senza bisogno di militari, multe.

Poi cos’è successo?
La curva dei contagi ha iniziato a scendere. Ma Trump si è messo a dire: «È una congiura, la Cina mi vuole spodestare». Non usava mascherine, fino a luglio mai usato una mascherina. Gli stati che più seguivano Trump sono stati quelli più irresponsabili. La curva lì è risalita tantissimo e il tentativo della California di riapertura, a giugno, è stato annullato. Noi in pratica siamo chiusi da marzo.

Ora come state vivendo?
Si parla dell’aggiunta di un coprifuoco. Non si può dire “torniamo in lockdown”: qua il lockdown non è mai stato interrotto. Ormai ci siamo abituati a fare il test in continuazione. Io e Victor, mio marito, lo facciamo ogni settimana. L’ultima volta ieri. Qua ci sono centinaia di siti drive-through gratuiti, vai con la macchina, non scendi neanche, fai il tampone e in 24 ore ti arriva il risultato.

(Foto Stefano Colarieti / LaPresse)
(Foto Stefano Colarieti / LaPresse)

Il clima dopo le elezioni com’è?
Anche su questo la California è un mondo a sé. Alle elezioni, in meno di 24 ore, Biden stava vincendo col 70 per cento. Ti fa capire tutto. Ce n’era bisogno. E non è una posizione politica: è una questione di clima. Qui il giorno prima dell’Election Day i negozi erano barricati con tavole di legno per paura di rivolte dei sostenitori di Trump. I politici non servono solo a fare le leggi sull’economia, dovrebbero servire anche a creare un clima di unione.

Biden come ti sembra?
Già il fatto che, come prima cosa, abbia detto: «Io sarò il presidente anche di quelli che non mi hanno votato, mi prenderò cura di tutti», cambia la percezione dell’uomo che ci guida. Qua l’atmosfera è già cambiata.

Kamala Harris?
È una figa. Furba e intelligente, ci sa fare. Per me la sua presenza è commovente: a prescindere di come andrà, ora l’America, con la sua voglia di cambiamento, è di ispirazione per tutti. Tra l’altro ho appena capito alcuni dei cartelli che vedevo piantati ovunque a casa dei miei vicini.

Cartelli?
Sì, con scritto “Byedon”. Non come molti che si vedono: “Biden”, “Go Biden”. Stessi caratteri della campagna ufficiale ma con questa scritta strana. Non capivo, andavo in giro col cane e non riuscivo a capire. Poi su Google ho scoperto che è nato un movimento virale, anti Trump, che gioca col cognome di Biden: “Bye Don”, Ciao Donald. Questa è la California.

(Foto Gian Mattia D'Alberto / LaPresse)

Lasciamo l’America e torniamo a Latina, dove tu sei cresciuto, negli anni Ottanta. Che posto è stato per te?
Da bambino tu conosci quello. Forse è lì l’inizio del dramma: il fatto di pensare che la realtà è solo quella. Che sei una mosca bianca, che ti meriti l’emarginazione perché il mondo va in quella direzione e tu da un’altra. È un po’ come i cani maltrattati dal padrone che comunque lo amano. Perché quella è casa, conoscono lui come padrone. La tua realtà ha quella forma, un po’ te la fai andare bene, un po’ ti affezioni proprio.

E quando conosci altro?
Scopri che puoi fare tutto, anche il mestiere che ti piace.

A Latina non potevi?
Dai 17 ai 21 facevo il corista, scrivevo le mie canzoni, andavo all’università. Avevo già firmato con la casa discografica e le risposte erano: «Ah, ah divertente. ‘Na cosa carina, la fai come passatempo?».

Reazione?
Un po’ ti senti quasi tu di doverti vergognare. E per questo mi piace invece la California.

Si sogna di più?
Qui fare lo sceneggiatore di serie tv o l’autore di musica, il chitarrista, l’autore di libri è normale. Sono mestieri che fanno in tanti.

(Foto Cosima Scavolini/Lapresse)

Ora com’è il rapporto con la tua città?
Con Latina c’è questo scollegamento ma anche un rapporto d’amore. Anche perché capisco che il posto dal quale vengo è un posto che genuinamente è nato in un ambiente di chiusura, di difficoltà di unione tra persone. Però ho anche notato una cosa.

Positiva?
Appena ho chiesto alle stesse persone di accogliermi per quello che sono, molte lo hanno fatto. Gli dai materiale per pensare e loro pensano. Non bisogna sottovalutare le persone.

Da piccolo come passavi il tempo?
Avevo due genitori molto giovani che lavoravano tutto il giorno. Si facevano il culo per portare a casa il minimo e quindi ero spesso a casa da solo. Mia madre compensava il senso di colpa comprandomi tutto quello che volevo.

Cosa ti facevi comprare?
A sette anni avevo la collezione completa dei Master of the Universe, di He-Man. Ho ancora il castello di Grayskull, me lo sono portato qua a Los Angeles. Vivevo in questo mondo di uomini deformati dalle sembianze animali. Infatti a me piacciono molto anche gli X-Men: hanno questi superpoteri che però poi rendono anche reietti. Il superpotere e insieme lo stigma di essere un mostro.

Cartoni preferiti?
Tutto il pomeriggio di Bim Bum Bam. Da L’incantevole Creamy a Holly e Benji. E poi Mila e Shiro, e Mimì. La pallavolo è stata la mia migliore amica dai dodici ai sedici anni.

Lapresse

Giocavi?
Molto. Nella squadra della mia città, dal super minivolley all’under18. Ed era molto strano perché io ero sovrappeso. Però avevo buona tecnica. Ero alzatore. Stavo sempre nella squadra principale, facevamo i campionati e ci posizionavamo bene. Ero alto per la mia età. Poi dai sedici anni in poi non sono cresciuto più.

E gli altri?
Sono diventati altissimi. Avevano molta meno tecnica di me però erano alti. E in più io non dimagrivo. Il peso è diventato un problema, la tecnica non compensava. Venivo messo in panchina, non ce l’ho fatta più. Ho abbandonato.

Altri amori del periodo?
La rivoluzione più grande, all’inizio degli anni Novanta: i Cavalieri dello Zodiaco. Le action figure le ho ancora tutte. Poi qui a Los Angeles in una bancarella vintage ho trovato un cuscino glitterato, che puoi cambiare passandoci la mano, da glitter neri a foto dei Cavalieri dello Zodiaco.

La trasformazione che torna.
Di base anche lì c’erano queste storie mitologiche, i miti, il cambio di identità.

Tra l’altro i Cavalieri dello Zodiaco si legano anche all’astrologia. Tu, lasciamelo dire, sei un Pesci da manuale. Ci credi, ti interessa?
Si rivela sempre vera. Mi spiace dirlo per quelli che non ci credono. Io sono fottuto su ogni fronte: sono ascendente Cancro. Rimango in quel mondo dell’ipersensibilità, della pancia, dello stomaco, dell’acqua, della disperazione come prima scelta per arrivare a qualsiasi decisione.

(Foto Gian Mattia D'Alberto/LaPresse)

Però a un certo punto nella tua vita arriva la musica.
C’è sempre stata. Ho iniziato il conservatorio a sei anni, mi ci ha iscritto mia madre che vedeva questa fissa con la musica. Per Natale chiedevo sempre strumenti musicali: la tastiera, la mitica Bontempi, quella arancione e bianca. Poi la batteria giocattolo. Mia madre aveva un registratore perché faceva delle lezioni serali e io glielo rubavo.

Ti registravi?
Melodie, canzoni. Già mie, non cantavo quelle degli altri. Alla fine del mio album Nessuno è solo c’è una ghost track, due registrazioni che risalgono al 1985, 1986. Avevo cinque, sei anni. Devi sentire i testi.

E al conservatorio com’è andata?
Mi ha distrutto. Non mi piaceva la musica classica, io volevo suonare la chitarra elettrica e mi hanno messo a suonare il Sagreras, il repertorio base della chitarra classica. Funebre. Tutti gli autori spagnoli, con queste melodie struggenti. E noiose, per un bambino di sei anni.

Tu cosa volevi suonare?
I Duran Duran e Stevie Wonder. E poi io sono mancino e loro mi costringevano a suonare la chitarra da destro. Quindi già li odiavo. In più non cantavo mai. Sono durato tanto, cinque, sei anni, ma poi ho mollato. Lì c’è stato un blackout: la musica non ho voluto neanche più ascoltarla.

(Foto: Alessandro La Rocca / LaPresse)

Fino a quando?
Nel 1993-1994 è successo qualcosa ma non ricordo cosa. Forse l’avvento dei cd. Mi regalarono il primo lettore a Natale del 1993. Chiesi il mio primo cd, Streets of Philadelphia di Bruce Springsteen. Che ho ancora, l’ho consumato. Da lì ho ripreso. Forse mi ero disintossicato da quei vecchi concetti da conservatorio.

Lì riprendi anche gli studi?
Ho iniziato a studiare musica nelle scuole private, pianoforte, suonando le canzoni che mi piacevano. Poi a sedici anni incontrai per caso il coro gospel di Latina che mi rivoluzionò il cervello.

Che è successo?
Liberazione, musica, amicizia, ero il piccolo del gruppo. Ero protetto. Questa musica dell’anima, spirituale, ma commovente, divertente. C’era tutto. Il gospel era tutto quello che io volevo. Da lì non mi ha fermato più nessuno.

(Foto Claudio Furlan/LaPresse)

Tu parli spesso della tua esperienza col bullismo. Quelle sensazioni di frustrazione, impotenza, come hanno agito in te nel corso del tempo?
La cosa più assurda è che solo adesso io riesco a vedere. L’ho capito a quarant’anni. Per questo dico parliamone. Ci sono arrivato attraverso le persone che mi scrivevano per ringraziarmi.

Io sono arrivato a liberarmi per sfinimento, non perché sono coraggioso. “Ah, che coraggio”, dicono. Ma quale coraggio? Io non ce la facevo più. Lì era o morte – e anche lì mi stavo impegnando discretamente – oppure andate tutti affanculo. Questo sono io.

Avevi fatto tuo lo sguardo degli altri?
La cosa più agghiacciante è che per me era normale. Le forme sottili di degrado, di violenza, di manipolazione che io ho subito le ritenevo logiche. Perché se tu sei così, ti diranno quelle cose.

Che hai subito fino a quando?
In realtà non è mai finito. Se tu vai in televisione, uno ti dirà che sei ingrassato, uno ti dirà che sei un piagnone, uno ti dirà che sei una checca, uno ti dirà che fai schifo a cantare.

Quindi anche oggi?
Di recente mi hanno fatto leggere un articolo nel quale una giornalista, in riferimento al documentario, parla di “generazione di piagnoni”. Si piange, si piange, ‘sto Ferro rompe i coglioni.

(Foto Claudio Furlan/LaPresse)

E come te la gestisci?
Ancora adesso mi chiedo quanto sia giusto accettarlo, quanto sia giusto non rispondere. Oggi ho tutte delle persone che mi aiutano a capire che questi comportamenti sono sbagliati, prima non era così. Il coming out, i diversi coming out, io li ho fatti per disperazione. Sono gli altri che me ne hanno spiegato il senso.

Secondo te può essere che chi taccia gli altri di vittimismo abbia dolori o traumi inindagati, irrisolti, e che provi fastidio quindi nel vederli rappresentati in un modo troppo diverso dal suo?
Io penso che tu abbia proprio azzeccato il punto della situazione. Infatti io mi astengo, osservo e utilizzo l’unico mezzo che ho, che è la compassione. Perché probabilmente sono persone ferite, perché probabilmente non hanno alternative, perché in un mondo nel quale chi scrive bene si deve confrontare con altri che scrivono, scegliere la strada più breve, quella dell’hater col patentino da giornalista, è più prolifico.

Questione di competizione?
L’hater lì per lì acchiappa un sacco di clic. Su questo li capisco, perché non dev’essere facile fare quel mestiere e farlo distinguendosi. Ma dover scegliere sempre dei contro-argomenti così tossici non può che intossicarti. Poi ho notato che non sanno più parlare bene delle cose.

Un automatismo?
Parlano solo di quello che odiano e si specializzano in un linguaggio, in un registro, disimparandone un altro che nella vita però è sempre utile, con sé stessi e con gli altri. Chiaro che io non sono il loro terapista, però lo noto. Quando poi provano a scrivere per supportare qualcosa, non lo sanno fare, diventano mielosi, banali, triti e ritriti.

Veniamo nello specifico a Ferro, il documentario per Amazon Prime Video. Com’è stato girarlo?
Massacrante. Io ho provocato quelli di Prime Video: quando mi hanno chiesto di farlo, loro pensavano a qualcosa di più istituzionale. Preparazione del tour, cose classiche. Li ho fermati e ho detto: «No. Ho un’idea».

Stavi scrivendo un libro in quel periodo, giusto?
Sui temi che poi ho affrontato nel film. Loro mi hanno detto: «Bene, se vuoi farlo su questo però bisogna spingere l’acceleratore, non si può restare in superficie. Se vuoi farlo va fatto davvero. Sarà come se un videografo seguisse un animale del National Geographic tutti i giorni».

Per quando tempo ti hanno ripreso?
Da settembre 2019 al 21 febbraio 2020, il giorno del mio quarantesimo compleanno.

Massacrante perché?
Sono arrivato a un punto in cui, lo sa il mio manager, dicevo: «Ma chi me l’ha fatto fare?». Non ce la facevo più, non li sopportavo più. Però l’idea era proprio quella: quando ti sentirai sfinito allora inizierà il documentario.

È successo?
Arrivi a un punto in cui non hai più controllo, non puoi filtrare più. Sei talmente stanco, sopraffatto dai giorni, dalle cose che ti accadono mentre ti filmano. A un certo punto li ho odiati tantissimo. Però sono convinto che abbiano fatto un atto di coraggio. Anche se poi, quando ci siamo messi a lavorare sul montaggio, c’è stata una guerra epica.

Motivo?
Non mi accettavo. Non riuscivo a guardarmi. Era un’estetica figlia di una cosa completamente diversa dalla mia. La bidimensionalità dell’artista ripreso su un palco a cui ero abituato era distrutta. Era tutto sbagliato. «Ma che faccia ho? Ma che cosa dico?». Non mi piaceva niente. Tuttora non mi piace niente di me. Però a quel punto le strade erano due: o non farlo uscire oppure farlo così. Lo dico: mi sono molto fidato di loro. Sono stati più coraggiosi di me. Io a un certo punto, preso dal panico, ho pensato: «No, è troppo».

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Il cuore del documentario è la tua esperienza con i gruppi di recupero degli Alcolisti Anonimi.
La cosa più bella della mia vita. Non puoi pensare di aiutare qualcun altro, di diventare figlio, marito, migliore amico, se non ti prendi cura di te stesso. Non puoi salvare nessuno se hai un braccio rotto. Ci ho messo anni per capire come mai sugli aerei dicessero di indossare la mascherina dell’ossigeno prima di aiutare gli altri. Non capivo neanche quello.

Cosa ti hanno dato le storie degli altri intercettate ai gruppi?
La cosa più bella dei gruppi di recupero, in generale – io ho iniziato in Inghilterra, poi ho continuato in America, frequentando a volte anche a Milano e Roma, dove però il mio anonimato se ne andava un po’ a farsi benedire – è che tu inizi delle amicizie, dei rapporti in maniera completamente incondizionata. Conosci delle persone e non sai chi sono, che lavoro fanno, quanto guadagnano, se hanno figli, se sono religiose, nulla.

L’unica cosa in comune?
Il dolore. Una storia di dolore con una forma simile.

Le differenze passano in secondo piano?
Crei delle amicizie su presupposti del tutto diversi. È una cosa che non accade mai più al mondo. La donna che ci ha sposato a Los Angeles, si vede nel documentario, è la mia sponsor. Una delle mie migliori amiche ormai. E a lungo io non ho saputo chi fosse e cosa facesse.

Un mondo a parte?
Succede esattamente il contrario di quello che succede nel mondo, dove io prima so che sei un autore di successo, che scrivi, un po’ fa figo, un po’ mi piace, un po’ mi attira, un po’ penso a cosa posso ottenere da te. Lì sei spoglio da tutto, l’anonimato ti permette di partire dalla sottostruttura. Questo è stato il privilegio: scoprire l’unione tra persone su delle basi che il mondo non conosce più.

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Veniamo al disco, appena uscito, Accetto miracoli: l’esperienza degli altri, tutto di cover. Perché proprio questi brani?
La più recente,
Non escludo il ritorno di Califano, è del 2005. Quindi innanzitutto dal primo listone ho fatto una scelta preliminare concentrandomi sulla prima parte della mia vita. Magari in futuro ci sarà un L’esperienza degli altri 2, chissà.

Ricordi associati a questi pezzi? Ad esempio: Bella d’estate di Mango.
Estate 1987, in campeggio a Terracina, Bella d’estate che risuonava dagli altoparlanti della pista da ballo. La gente che ballava, andava sui pattini. Io avevo sette anni e tutto era bello. Giocavo ai videogame, mio padre cambiava diecimila lire in monete: «Ok, queste ti devono bastare tutta la settimana». Spendevo tutto in due giorni.

Margherita di Cocciante?
È il pezzo da cui sono partito, quello che ci doveva essere per forza. Anche se l’avessi cantata male. Questo disco esiste per quella canzone.

Dove ti riporta?
Al mio primo concerto, mia madre grande fan, mi trascina, grazie a Dio, al palazzetto dello sport di Latina. Non avrò avuto più di cinque anni. E vedere Cocciante, uno shock. Totale. Quel giorno ho avuto un’esperienza extrasensoriale. È lì che per la prima volta ho pensato: «Io voglio quello».

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