Non ho mai fatto il ritratto di nessuno. Proprio per questo, quando mi è stato chiesto di scriverne uno, ho accettato su due piedi: per via del suo soggetto o malgrado il suo soggetto? Non saprei dirlo. Certo è che l’idea di parlare di Milo De Angelis a quasi mezzo secolo dal nostro primo incontro, mi divertiva molto.

Tempo fa ho sognato di dover affrontare quell’esame di pianoforte cui non arrivai mai. Ero terrorizzato, non ricordavo più neppure un pezzo dei tanti che avevo imparato a memoria. Quando appariva mia madre, e mi tranquillizzava dicendomi: non c’è bisogno che tu li suoni. Raccontali, racconta la musica e basta. Ecco, penso che ora proverò a fare qualcosa del genere, perché i ricordi sono proprio questo: descrivere qualcosa delle melodie che un tempo lontano suonammo.

Innanzitutto, però, alcune regole, a cominciare da quella che vidi usare in un poetry slam: cancellare il voto più alto e quello più basso. Lo so, è un vero peccato, eppure necessario. Dunque non dirò nulla del momento di massimo affetto, né di quello di massimo dispetto. E andiamo a cominciare.

Primo incontro

I tanti appunti presi si sono disposti da soli intorno a una serie di città in cui ci incontrammo viaggiando. Più grande di me di sei anni, Milo è nato nel 1951 a Milano, dove è sempre vissuto, mentre io ho sempre abitato a Roma, ragion per cui l’ho visto saltuariamente, e per lo più in trasferta. La prima di queste fu niente di meno che la nostra piccola Woodstock poetica, ovvero il convegno di Orvieto Scrittura Lettura, organizzato dalla cooperativa scrittori per iniziativa di Luigi Malerba, Nanni Balestrini e Antonio Porta. Era il 1976, e chiunque scrivesse versi cercò di andarci, in treno, in auto, in autostop (allora funzionava molto bene; io ci sono arrivato fino a Dublino).

Piombai là senza neanche prenotare un albergo, e fu così che mi ritrovai a dormire con quattro sconosciuti, due sulle reti del letto, due sui materassi per terra. Uno di loro era Giorgio Patrizi, in seguito docente di letteratura italiana alla Sapienza, che tuttavia dice di non esserne sicuro.

La lista degli ospiti era impressionante. Insieme agli autori che più di dieci anni prima avevano dato vita al Gruppo 63 (Arbasino, Eco, Sanguineti, Manganelli), troviamo Malerba, Moravia, Einaudi, Siciliano, Barilli, Ginzberg, Pedullà. Discussioni a non finire, e la celebre occupazione del palco da parte di una delegazione di lavoratori, mentre Vincenzo Guerrazzi legge alcune lettere consegnategli dagli operai dell’Ansaldo.

Evocando quell’incontro, Marco Belpoliti ha ricordato che una mattina, nel teatro Mancinelli, Porta aprì una delle sedute declamando una poesia che Toti Scialoja gli aveva recitato la sera prima in albergo: «Il sogno segreto / dei corvi di Orvieto / è mettere a morte / i corvi di Orte».

I quattro versi diventano l’emblema del convegno, «interpretati come parte del conflitto che attraversa la letteratura italiana: neoavanguardia contro conservatori. Da lì spunterà un nuovo libro di Toti: La stanza la stizza l’astuzia, cooperativa scrittori 1976». Sullo stesso argomento è tornato anche Paolo Mauri: «Alla fine, non c'è dubbio: la confidenza è certamente amicale, ma presuppone persino una consorteria: che i corvi di Orvieto fossero gli scrittori della neoavanguardia mentre quelli di Orte, genericamente, i tradizionalisti?». Concludo le notizie sull’illustre evento segnalando che esso venne celebrato nel 2006 con l’incontro Or-vietato Sporgersi. Sembra infatti che questo fosse il titolo dell’intervento con cui Roland Barthes avrebbe dovuto partecipare.

E Milo? Mi comparve davanti magro come un chiodo, esaltato, svettante. In quel periodo io studiavo a Parigi, e avevo aiutato Jean-Charles Vegliante (docente, poeta, traduttore di Dante e più tardi tradotto in Italia da Raboni) a preparare un’antologia di poesia italiana contemporanea. Forse per questo il discorso finì per vertere sulla Francia. Mi sembra ancora di ascoltare la sua affermazione: «Bisogna blanchottizzare il mondo».

Altro che Barthes, che avevo conosciuto pochi mesi prima. Qui si trattava di un critico letterario altrettanto grande, forse più grande, certo più misterioso, Maurice Blanchot, di cui lo stesso Milo stava traducendo L’attesa, l’oblio (Guanda 1978). Da allora, associai sempre la sua scrittura a quell’ambizioso programma totalitario. Posso sbagliarmi, però mi sembra di averlo intravisto in una poesia del suo ultimo libro appena uscito Linea intera, linea spezzata (Mondadori). Si intitola Esselunga, e comincia così: «Nel traffico dei carrelli, vicino alla cassa appare / – come un superstite tremante, come una figura / devastata da se stessa – il poeta che fu bello e giovanissimo, / il ragazzo dai versi secchi, brevi e tassativi».

Esaltazione e rigore, insomma. D’altronde, sapevo che era molto legato a Franco Fortini, e dunque quella perentoria dichiarazione di poetica si sposava all’immagine di maestri severi fino all’intransigenza. Credo che poi, con Fortini, finì per litigare, ma era normale. Torturato, dolente, Fortini litigava con tutti, anche con se stesso. Non con me, ma solamente perché non fece in tempo. Lo sentii a lungo per telefono, lavorando alla correzione di una traduzione da Gide, ma lo incontrai in un’unica occasione, alla presentazione del libro di un suo amico. Restò fino alla fine, ma quando quel suo amico prese la parola, se ne andò via sdegnato: qualche tempo prima, aveva litigato anche con lui. Però, mentre mi accingevo a uscire, fui avvicinato da una signora molto gentile, che mi consegnò un disegnino: era il mio ritratto, firmato da Fortini.

Dopo Orvieto, rividi Milo proprio a Parigi. Di quel viaggio, confesso, ho dimenticato quasi tutto, tranne una mattinata passata insieme a spasso, per librerie, con lui che all’ora di pranzo tira fuori un volume di René Guénon, l’islamista esoterico, e me lo consegna: «Tieni», mi fa: «L’ho preso pensando a te». Toccante, specie in confronto a certe altre scene molto meno amichevoli, come quella dell’incontro successivo.

Viaggi in provincia

Adesso siamo in provincia, in una scuola media. Sono le letture che amo di più. Perché in effetti non ho ancora detto nulla della diffusissima pratica che portava chi scrive versi (almeno nell’era pre-pandemica) a leggerli viaggiando. Dal Caucaso a Ovindoli, non c’è città o paese che non abbia invitato i poeti a qualche reading o festival: «Vieni con noi! Visiterai il mondo». E i poeti, felici di spostarsi gratis e spesso pagati, si arruolano. Così, alla fine, si forma una vera e propria compagnia di giro, che tanto più si apprezza quando, al contrario, ci si deve spostare da soli.

A questo proposito, c’è un racconto memorabile del poeta inglese Simon Armitage. Lo chiamano in una città di provincia della Gran Bretagna. Inverno, pioggia, nessuno ad aspettarlo alla stazione, tre o quattro spettatori che lo criticano. Deve cenare da solo, poi, mentre torna in albergo, scorge la pallida luce di un negozietto aperto: libri usati. Entra, fruga e s’imbatte in una sua raccolta. Chissà chi l’avrà venduta, e cede alla tentazione di guardare la dedica. Sì, c’è, in effetti, e recita: «A mamma».

Ma accennavo a una scuola di provincia. Tenendo presente l’età dei ragazzi, io feci mille sforzi per farmi comprendere. Studenti giovani, che non sapevano quasi nulla di poesia.

Milo, invece, parlò come se fosse altrove, in un’accademia, a un congresso di italianistica, non cambiò una parola per adattarsi all’uditorio, niente. E fu un successo. Allora mi ricordai di Niebo, la sua rivista milanese così lontana dal disincanto di Roma, capii l’enorme fascino esercitato sui giovani, il carisma. Il suo proselitismo nasceva proprio dal non concedere nulla agli ascoltatori, che tanto più venivano respinti, tanto più si legavano. Mi faceva pensare a Emilio Garroni, docente di estetica alla Sapienza, capace di tenere una lezione davanti alle matricole discutendo come se fosse stato a un simposio di specialisti.

Mi accorgo, certo, di non aver ancora parlato della poesia di Milo. Spesso le sue accensioni mi rapivano, buio e accensioni, assolute, di una verticalità irremovibile, La corsa dei mantelli, oppure Distante un padre. Mi ha sempre incuriosito il fatto che Valentino Zeichen fosse diventato col tempo un suo carissimo amico. Due modi di scrivere perfettamente agli antipodi. Loico e argomentativo, Valentino scherzava sull’apoditticità di Milo, che gli sembrava ricevere la posta, diceva, direttamente dalla divinità. Il riferimento era all’orfismo di un’antologia feltrinelliana che nel 1978 riscosse un notevole successo, La parola innamorata, a cura di Giancarlo Pontiggia e Enzo Di Mauro.

Ma per tornare a noi, quell’incontro in provincia finì male, perché di colpo, senza alcun motivo, in maniera confusa, incerta anche per lui, volle prendermi in giro; io gli risposi bruscamente. Irrideva un mio verso in particolare, consacrato ai granelli di carbone, per me sacri! Io ribattei schernendo un personaggio del suo pantheon poetico, figura per lui mitica. Liti infantili. Così smise. Non litigammo mai più, almeno apertamente. Scoprii però un suo lato non dico oscuro, ma poco controllato, come uno strappo che facesse intravedere un mondo sottostante contorto, ostile. Mi colpì anche il disgusto con cui parlava di un altro poeta «da circolo del golf». Certo, non era perfido come si divertiva a esserlo Giovanni Giudici, cui vidi fare cose inenarrabili, tuttavia mi stupì. Non me l’aspettavo.

Adesso, invece, siamo a Royaumont, una splendida abbazia vicino Parigi dove, per dieci giorni, venti poeti francesi traducono le opere di quattro poeti italiani. Ci siamo noi due, Giuseppe Conte e Zeichen. E qui venne alla luce un altro suo strano aspetto, non uno, anzi, bensì due, e contrapposti! Si mangiava bene e a lungo, e si beveva, la sera, fino a tardi. Tra tante chiacchiere, Milo si vantava di essere sia un grande calciatore, sia un grande giocatore di ping pong. Il giorno dopo, sul bellissimo prato davanti all’ingresso, sbucò un pallone. Praticamente, lui ci inciampò sopra.

Rimasi sbalordito. Ma come! E la bravura tanto decantata? Zeichen rideva, finché, nel pomeriggio, viene fuori che in soffitta c’era un tavolo da ping pong. Ci precipitiamo, e il mio sbalordimento, se possibile, aumentò ancora: non avevo mai visto qualcuno forte quanto lui. Che straordinario modo di mentire! Bugiardo al 50 per cento, oppure al 50 per cento veritiero? Dovetti rassegnarmi a non capire, e forse era il modo giusto per capirlo: rinunciare a farlo.

Dalla Svezia alla Georgia

Tutto apparve più chiaro, invece, in Svezia, dove ci ritrovammo qualche anno dopo. Milo era sempre in ritardo. Non so come fosse riuscito ad arrivare in aereo, tra scali e cambi vari. Mi metteva ansia al solo vederlo, a me, che arrivo almeno con un’ora d’anticipo. La vera sorpresa, comunque, fu l’impiego del famoso gettone di presenza. Venni infatti a sapere che, col denaro guadagnato, aveva comperato una serie di gomme da incollare sulle racchette da ping pong. In effetti la nazionale svedese era tra le prime al mondo in quello sport. Erano all’avanguardia nella tecnologia dei materiali, persino rispetto alla Cina, mi spiegò. Per cui si era comprato strati e strati di plastica e di spugna, per farsi una racchetta su misura, tarata sul suo modo di giocare. Come dargli torto, visto il suo stile spaziale... Non mi era mai capitato di vedere imprimere un effetto simile alla pallina. Non mi riusciva nemmeno di rispondere alla battuta, e in abbazia persi ogni set a zero. A proposito: ora mi torna in mente un curioso torneo, sempre di ping pong, organizzato a Roma, nella galleria L’attico, da Fabio Sargentini. Per essere precisi, torneo e performance insieme, cioè, torneo come performance, sulla via di Duchamp e malgrado la sua preferenza per gli scacchi. Scrittori, fotografi, artisti si incontravano al tavolo, e c’erano i tre Marco, ossia Delogu, Lodoli e Tirelli. Sono certo che Milo avrebbe vinto.

Bellissima, però, fu soprattutto la gita a Tbilisi, nel cuore della Georgia sovietica, tre anni prima che cadesse il muro di Berlino. Ci andammo in sette, i quattro di Parigi più Maurizio Cucchi, Gregorio Scalise e Cesare Viviani. Sette poeti italiani, mi viene da notare, e nessuna poetessa… Per fortuna da allora (eravamo nel 1986) le cose sono cambiate. In ogni caso, sembrerà strano, in mezzo a tante discussioni letterarie, la cosa che impressionò di più i nostri ospiti di allora fu il fatto che nessuno di noi avesse un figlio. La mostrarono in diverse occasioni, la loro perplessità...

Ma eccoci a tavola. I pranzi, da quelle parti, durano ore, e dico quattro o cinque, fino alla cena, insomma. Si brinda a rotazione, tra un piatto e l’altro, sotto la ferrea legge del tamadà. Cito da internet, sotto il titolo “il tamadà georgiano”, figura ispiratrice per il moderno sommelier: «In Georgia bere vino con gli amici è un atto conviviale e sacro, scandito da un complesso sistema di usi e tradizioni consolidate. Durante il supra, il banchetto georgiano, il tamadà è colui che guida i brindisi. Oltre a conoscere il vino e le tradizioni della tavola, il tamadà è un abile dialogatore che sa unire le capacità dialettiche a una buona dose di spirito».

Era una meraviglia, quel mangiare, ma alla lunga eravamo sfiniti. Fu allora che Milo, prendendoci di sorpresa, concluse il proprio brindisi dicendo al nostro anfitrione che purtroppo avrebbe dovuto lasciarlo. Infatti, lo aspettava una ragazza georgiana appena conosciuta. Il nostro sbalordimento fu unanime (conosciuta? dove? quando?), seguito subito dopo dall’ammirazione per una scusa tanto sfrontata e smaccata. Il nostro tamadà, però, la sapeva lunga, e invocò un altro brindisi, prendendo la parola per narrarci una favola antica. C’era una volta una fanciulla di Tbilisi. Era fresca di nozze, ma il giovane marito la dovette lasciare, partendo per la guerra. La ragazza aspettò paziente e tenace. Aspettò per anni e anni. (La storia durò circa un’ora, ma la abbrevio). La donna aspettava, il tempo passava (la storia mano mano si allungava).

L’escamotage di Milo aveva finito per ritorcersi contro tutti noi, ritardando ulteriormente il momento dei saluti. Milo smaniava ma era costretto a rimanere fermo, finché il tamadà terminò il racconto così: «Insomma, caro amico, come vede le donne georgiane sanno attendere. Anche la sua compagna, stia tranquillo, pazienterà. Perciò si sieda pure, e continuiamo il pasto». In tanti anni, confesso, non arrivai mai a odiarlo come allora.

Milo in famiglia

Così siamo arrivati alla settima tappa, almeno fino a oggi, la più triste. Triste perché fu forse l’ultima volta che vidi Giovanna Sicari, amica e poetessa, che nel frattempo si era sposata con Milo. Avevano avuto un figlio, che quella sera, a casa di Biancamaria Frabotta e Brunello Tirozzi, era con loro. Giovanna purtroppo morì poco più tardi, ma quell’incontro fu spensierato, leggero. Ricordo solo che Milo le dedicò nel 2005 un libro straziante, Tema dell’addio, mentre Biancamaria scrisse per lei una suite. La nostra ospite ci parlava di Scialoja e del ritratto che le aveva fatto, mentre Brunello (destinato anch’egli a diventare poeta) suonava jazz al piano. Giovanna sorrideva dolce e io osservavo curioso Milo in famiglia.

Milo in famiglia, in una sua famiglia: chi lo avrebbe mai detto! Che strana metamorfosi avviene quando, per dirla alla Zeichen, ci “duplichiamo”. Così era stato anche per lui. Milo al quadrato e Giovanna al quadrato. Milo e Giovanna al cubo. Giovanna e Milo fatti esponenziali. Passai tutta la sera a pensarci su. Bello, comunque; bello e inverosimile. I nostri ospiti russi avrebbero approvato. Ora anche lui, come me, poteva dire di avere avuto figli. Ora anche lui era infine arrivato a essere “distante un padre”.

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