Muovendo da un modello, spesso un’opera dell’arte barocca, Nicola Samorì ne ridefinisce forma e significato caricandolo di implicazioni che trascendono l’idea di bellezza incarnata dall’arte del passato. L’opera giunge al suo compimento seguendo due diversi percorsi che si intrecciano, uno concettuale e l’altro formale. In Volta del Mondo (2014), per esempio, Samorì ha ridipinto Atlante (1646) del Guercino su una lastra di rame. Guercino raffigura il titano che regge sulle proprie spalle la volta celeste perché non cada sulla terra.

Nella versione di Samorì la parte superiore del dipinto, quella che coincide con la volta celeste, si stacca dal supporto di rame e, ripiegandosi su se stessa come fosse pelle strappata da un corpo, va a gravare, raggrinzendosi, su Atlante, rendendolo metafora del pittore che porta sulle spalle il peso della pittura. Per ottenere questo risultato Samorì ha utilizzato il rame come supporto perché non ha la porosità della tela o del muro, e permette alla pittura a olio non del tutto essiccata di essere sollevata con la lama di un taglierino senza che si frantumi. Il tessuto della pittura così rimosso si ripiega verso il basso per effetto del suo stesso peso. Il metodo utilizzato è legato al materiale scelto ed entrambi sono inscindibili dal significato dell’opera.

Interno ed esterno

«Tutto il mio lavoro di pittore e scultore ha a che vedere con la pelle» mi dice Samorì, «con l’organo che separa l’interno dall’esterno. Un dipinto è sempre, del resto, una pelle che riveste uno scheletro: la tela, il telaio, il muro, il foglio. Una volta costruito il corpo della pittura per me è quasi automatico pensare che se ne possa scorticare la pelle per mettere in evidenza le prime pennellate, quelle che si sono appoggiate direttamente sulla superficie levigata del rame, oppure del legno. Il rovescio della pittura, come la parte nascosta della pelle, rivela allora qualcosa di fresco e di brutale».

Non c’è lavoro di Samorì che affranchi il soggetto raffigurato dalla propria narrazione originaria. In Pietra penitente, per esempio, un olio su tavola del 2016 che raffigura san Girolamo, il volto e il petto del santo portano evidente il segno di una ferita. L’iconografia di Girolamo lo vede rappresentato, oltre che come dotto padre della chiesa intento a studiare le sacre scritture, come eremita penitente che si percuote il petto con un sasso.

Nel realizzare la sua versione di San Girolamo – soggetto che torna più volte nel suo lavoro – Samorì ha fatto diventare reali le conseguenze del gesto di automortificazione del penitente colpendo l’immagine appena dipinta con un sasso, che ha poi trascinato verso il basso, fino al ventre, lasciando un solco. Questa ferita che squarcia la pittura è la concretizzazione del gesto del santo che si batte il petto con una pietra. Il riferimento iconografico di Pietra penitente è il San Girolamo (1638-1640 c.) di José de Ribera. «Vedo in lui il pittore che trasforma la pelle in qualcosa di osceno» mi dice, «e che riesce nella fusione perfetta fra il colore a olio e la sua vocazione a farsi carne».

Nel presente

Come i pittori e gli scultori analitici degli anni Settanta del Novecento, Samorì ritiene che ci si possa interrogare sulla pittura o sulla scultura solo attraverso la loro pratica. Ridipingere e poi subito infierire su un’immagine che viene dal passato senza cadere nell’iconoclastia, senza cioè che l’immagine perda il suo significato e la sua riconoscibilità, è il suo modo per catapultarla nel presente attraverso un elaborato processo di sottrazioni e sovrapposizioni.

Questo processo, che non tende alla decostruzione ma, al contrario, a dare corpo a un’immagine compatta, rende la sua arte estranea alle concezioni evolutive o consequenziali care alle avanguardie di ieri e di oggi. Mentre cioè avanguardisti o rivoluzionari hanno sempre pensato che l’arte avrebbe fatto un passo avanti solo attraverso la sintesi e la decostruzione, Samorì ritiene che la patente di attualità dell’arte non spetti solo a chi ritiene che l’arte del passato non offra sentieri ripercorribili: «Ripetere una cosa significa anche renderla di nuovo possibile; la replica è come un pellegrinaggio: si torna sui passi di un altro, ma nel cammino si incontrano cose differenti». I lavori descritti, come del resto tutti gli altri realizzati dall’artista, lasciano pensare di primo acchito che l’attenzione di Samorì sia rivolta a una ridefinizione del Barocco. Le finalità che l’artista persegue sono invece ben altre: attraversare l’arte del Novecento usando il Barocco o il Manierismo come un grimaldello capace di forzare le porte del già detto.

Questa scelta denota il coraggio del pittore di porsi dinanzi alla realtà e di accettare tutte le verità che essa gli mostra. Si pensi alle tante rappresentazioni che Samorì ha fatto di santa Lucia. Clessidra (2020), per esempio, è un dipinto a olio su marmo rosa del Portogallo che ritrae una figura immaginaria della santa. La protettrice degli occhi sembra piangere polvere. Il pulviscolo chiaro che le vediamo scendere dagli occhi, infatti, è il marmo frantumato fuoriuscito da due fori fatti col trapano in corrispondenza delle pupille. La polvere si è fissata al supporto nella sua caduta verso il basso grazie a una vernice trasparente a lenta essiccazione, stesa sull’opera prima della trapanazione. Ancora una volta la pittura si pone come membrana fra una superficie esterna e una interna che entrano in comunicazione attraverso la ferita.

L’immagine seviziata

Il modo in cui Samorì affronta lo sfregio non è mai espressione di un gesto vandalico, bensì una pratica che spezza e nello stesso tempo potenzia il filo della narrazione. Nei suoi soggetti drammatici – Bartolomeo scorticato, Lucia accecata, Sebastiano trafitto – il supplizio non coincide più con la rappresentazione agiografica del martire accompagnata dai simboli del martirio, ma diventa presentazione, azione fisica sul corpo stesso dell’immagine seviziata con gli arnesi del pittore, dello scultore e dell’incisore (sassi, bisturi, sgorbie, acidi, scalpelli, fiamme).

Samorì non è interessato alla perfezione della forma così come questa era intesa dagli scultori classici, al contrario le sue sculture vogliono scardinare proprio quell’idea preconcetta di bellezza come perfezione che ancora ci portiamo dentro. «Il disturbo è l’agitatore dell’immagine», dice. La definizione della forma delle sue sculture trae infatti spunto proprio dal difetto del materiale, che può essere una fenditura, una venatura, un geode o un’accentuata porosità. A differenza delle statue raccolte nei musei archeologici, che trasmettono nelle parti mancanti o corrose il senso di una mutilazione, nell’opera di Samorì la ferita della pietra esprime un diverso senso di bellezza legato a una difformità nella materia, che indirizza la definizione formale della scultura.

Quando dinanzi a una statua antica scorgiamo un volto sfigurato o un arto mancante, d’istinto cerchiamo di ricostruirne, quantomeno mentalmente, le parti danneggiate. Consapevoli del fatto che la scultura non è stata concepita con quella forma, percepiamo giustamente la ferita come uno sfregio della bellezza. Se però consideriamo che le sculture di Samorì traggono la loro forma espressiva proprio dai suggerimenti che gli offre la materia, ecco allora che la loro bellezza è data da tracce che sono memoria di un processo geologico. Sarà dunque proprio quella che in una scultura classica percepiamo come una ferita a consolidare nell’opera di Samorì un’idea di integrità, di equilibrio formale, che si manifesta nel tradurre quello che una volta avremmo considerato un difetto in un segno del fatto che la forma che lo scultore dà alla materia è solo un momento di un processo di continua trasformazione iniziato migliaia di anni fa, e che continuerà.

Processo e metodo dimostrano che Samorì non guarda con nostalgia l’arte del passato e che il suo interesse va ben oltre un periodo storico definito. «Il Barocco è solo una delle stanze esplorate dal mio lavoro» spiega, «frequento anche la pittura fiamminga, quella manierista, quella purista. Pure il Moderno è entrato con forza nelle mie opere. Alle immagini affidiamo spesso il compito di sopravviverci, ma cosa accade quando siamo noi a sopravvivere alle immagini?

Per me ogni opera è una sintesi del vivere: è fatta di cura e di collera, di adorazione e di ripulsa. E fra la costruzione di una forma solida, senza crepe, e la disintegrazione della stessa, esiste un intervallo che mi attrae più di ogni altra cosa: è la forma esausta – a me piace chiamarla “sfinita” – che si arresta un passo prima della sua stessa sparizione, in una oscillazione fra la forma e l’informe, fra l’essere e il non essere, fra il narrare e il tacere. Questa agonia nei corpi vivi è insostenibile, mentre nel lavoro a volte tocca uno stato di grazia che mi rimette in ordine».

 

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