Imparare richiede coraggio. Non ne sai niente di tennis, di francese, di musica. Ti avvicini con circospezione alla materia, prendi lezioni. Rincorri la palla brandendo la racchetta neanche fosse una spada laser, arroti la lingua per parlare come Poirot e al massimo sputacchi tutto intorno, abitudine disdicevole nell’èra post pandemica. Spingere il diaframma verso il basso mentre fai le note alte è più controintuitivo di un film di Christopher Nolan.

Eppure lo fai. Se ci pensi bene lo fai da tanto, gran parte della tua vita è costellata di cose che prima non sapevi, poi impari: perché devi, o per diletto, o per inerzia, le strade sono tante. Alcune cose ci hai provato a farle tue ma non c’è stato verso. Altre, è bastato applicarsi mezza volta e già ti appartenevano. Le hai riconosciute, come fossero sempre state lì, acquattate in qualche sottoscala della mente, e aspettassero solo di essere risvegliate.

Se imparare richiede coraggio, figuriamoci disimparare.

Nord est, sabato pomeriggio, biblioteca di provincia. Nella sala dei libri per ragazzi – tappeto colorato, cuscini, tavoli bassi e sedie mignon – c’è una dozzina di bambine e bambini.

Con loro ci sono io, una Gulliver fuor di misura in un salottino delle bambole. Cerco brandelli di fungo da mordere per tornare della dimensione giusta, quella dei 7-8enni che mi circondano.

Non ne trovo.

Siamo lì per imparare cose diverse. Loro provano a scrivere una storia, una poesia. Io provo a insegnarglielo. Questo è il punto in cui bisognerebbe scrivere che è chi insegna a imparare davvero, che dai bambini si impara sempre. Non è quel tipo di articolo. Questo è un articolo sul disimparare (ci sto arrivando).

Come Hemingway

Young girl chasing flying book with butterfly net (Ikon Images via AP Images)

Per farlo, serve conoscere Luca: sette anni, fa la seconda alla primaria e alla scrittura preferisce scienze e matematica. Lo dice senza fronzoli, visibilmente seccato per essere stato parcheggiato lì mentre i genitori si godono un paio d’ore di – azzardo – aperitivo senza figli. Aperitivo precoce, sono le quattro di sabato pomeriggio, ma siamo pur sempre nel nord est.

Lo capisco, Luca. Non c’è niente di peggio che sapere con certezza cosa vogliamo – o non vogliamo – nella vita e non poter decidere in autonomia. Gli dico: Abbiamo una missione speciale. Dobbiamo far passare ‘ste due ore. Diamo una possibilità a qualche manciata di parole e io ti garantisco che a un certo punto arriveranno le sei e tu sarai libero.

Luca, che essendo un bambino di scienza crede nel metodo empirico, una possibilità alle parole gliela dà. C’è da inventare un acronimo con il proprio nome. Luca scrive: Leopardo Ulula. Cacciatore Asparato.

Leggo e penso: Hemingway. È tornato. Non ne aveva abbastanza di questo vecchio mondo. È tornato mascherato da Luca che fa ululare i giaguari sparati dai cacciatori. Ed è subito Fiesta.

Quando è il suo turno di leggere, Ernest-Luca ci illumina: i leopardi non ululano ma vuole rendere la sofferenza dell’animale colpito e gli pare che l’ululato renda l’idea. Sa che si scrive: ha sparato. Ma lui vuole raccontare la storia del leopardo e del cacciatore, e la creazione dell’acronimo ha regole precise, che non può trasgredire. Dunque, A come Asparato.

Trasgredire

Nursery teacher with three toddlers sitting on lap reading (Ikon Images via AP Images)

Eccola qua la prova empirica e scientifica della reincarnazione. Mi trattengo dal chiamarlo Maestro mentre avvio un confronto tra quelli che a prima vista avevo etichettato come bambini, ma ora non sono più certa di niente. Si può trasgredire una regola, se è la storia a chiederlo?

Decidiamo – e questo è il punto in cui bisognerebbe scrivere che il gruppo ha deciso liberamente, ma non è andata così. C’era un intero Olimpo di dee ex machina a manovrare il confronto – che di fronte alla potenza di questi versi possiamo concederci una licenza poetica.

Se il poeta Whitman ha sciolto i versi dai legacci della metrica, il bambino Luca può allentare qualche iniziale dell’acronimo, che diventa: Leopardo Ulula. Cacciatore hA sparato.

Arrivano le sei, i genitori recuperano la prole e io esco dalla biblioteca per tornarci il lunedì pomeriggio. Mi aspetta un altro gruppo, meno lillipuziano del primo: gli insegnanti. Un altro paio d’ore per ragionare su lettura e scrittura a scuola. Mostro le foto degli scritti dei bambini, alcuni sono loro studenti.

Chiedo cosa vedono in quelle foto. Arrivate all’acronimo di Luca, vedono tutto quello che manca: i leopardi non ululano. Inizialmente c’era scritto ha senza h, e ha e sparato non erano separate. La sentenza è unanime: non è un acronimo, è un accrocchio di errori.

Correttezza e creatività

Questo è il punto dell’articolo in cui bisognerebbe scrivere che l’Italia è piena di maestre e maestri e prof attenti all’ortografia e alla creatività, alla grammatica e al potenziale espressivo dei giovani studenti. Io per prima ne conosco tanti. Troppo spesso questi tanti, se si prende in considerazione la singola scuola, sono pochi, sempre in minoranza, soli a portare avanti una battaglia contro i mulini a vento per cercare di tenere accesa una scintilla di entusiasmo negli studenti.

Anche in quel gruppo di docenti ce ne sarà stato uno, forse due che alla vista dell’acronimo di Luca avrà pensato: che bella poesia. Ma difendere una tale posizione significa mettersi contro tutti i colleghi, anche i tre con cui si può ancora fare pausa caffè. E questo è un articolo, non la sceneggiatura de L’attimo fuggente.

Non sarà un film ma io ci vedevo Hemingway, lì dentro, non solo un mucchio di errori. Chi ha ragione? Tutti abbiamo ragione. Credo, però, che valga la pena insistere, non per portare il gruppo dalla mia parte ma perché troppe volte quel che potrebbe essere viene messo in ombra da quel che è.

La scommessa di costruire

L’errore è visibile, in bella mostra, facile da notare. Hemingway, invece, se ne sta nascosto tra le pieghe del costato ululante del giaguaro. Non si tratta di ignorare l’errore, ma di capovolgere le priorità. La priorità, nel caso di Luca, è la bellezza drammatica di una fiera morente. Per onorare la sua poesia, e renderla comprensibile a tutti, è importante correggerne gli errori.

Così facendo, il protagonista non è più lo sbaglio ma la creatività e il contributo di chi si sta mettendo in gioco. Correggere gli errori diventa un modo per riconoscere e sostenere il buono che si sta facendo.

La posta in gioco è alta e va ben oltre le aule scolastiche e il voto nella verifica di grammatica.

È una scommessa che si gioca a scuola, al lavoro, in famiglia, ogni giorno.

Butti dall’altra parte della rete la tua prima pallina da tennis, è dentro, ti senti un po’ Roger Federer un po’ Serena Williams e il rimbalzo che ti arriva dal maestro è: hai sbagliato a tenere la racchetta. Sai conversare in francese fluente, ormai, riesci persino a fare battute, ma ogni volta in ufficio ti fanno notare che hai un forte accento italiano. Canti, ma sai suonare uno strumento?

Prof disinteressati, capi svalutanti, partner sminuenti. Un terreno di gioco che diventa un campo minato. Alla lunga ci si arrende. Si fa il minimo indispensabile, si fa quel che gli altri si aspettano da noi, si rinuncia a una parte di sé. Mai sentito parlare di quiet quitting nel lavoro? Ha a che vedere anche con questo.

Imparare richiede coraggio. Imparare significa costruire. All’inizio le conoscenze, le competenze sono fragili come un castello di sabbia. Noi siamo fragili come un castello di sabbia quando ci esponiamo e ci mettiamo in gioco. È un momento delicato, da proteggere. A volte arriva il prepotente di turno che distrugge tutto con un calcio.

Sappiamo cosa significhi ricevere quel calcio. A volte non sappiamo che il bullo siamo noi perché non ce ne rendiamo nemmeno conto. Abbiamo solo mostrato quello che non funzionava, che era sbagliato, che andava rifatto. Vero. Ma abbiamo anche ignorato tutto quello che c’era di buono o che sarebbe potuto fiorire. È questo che va disimparato.

Alla fine dell’incontro dico a Luca: sei bravo, dovresti scrivere. Fa spallucce, mentre va incontro ai suoi mi saluta con un cenno della mano e risponde: meglio la matematica. Come dare torto al vecchio Hemingway. In fondo, ci ha già dato tutto quello che poteva darci, con le parole.

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