Cent’anni fa l’emiliana Alfonsina Morini maritata Strada fu la prima donna a correre il Giro d’Italia insieme agli uomini: la gente a bordo strada la chiamava puttana, perché aveva le cosce scoperte. Nel 2021 le donne hanno affrontato per la prima volta l’inferno in terra della Parigi-Roubaix, la classica del pavé: l’inglese Lizzie Deignan per la vittoria ebbe 1.535 euro di premio, Sonny Colbrelli per il successo tra i maschi ne vinse 30mila. Però un altro muro era caduto, uno degli ultimi recinti in cui le donne non potevano entrare era stato abbattuto.

Sessantasei anni fa, nel 1958, la napoletana Maria Teresa de Filippis, per tutti Pilotino, fu la prima donna al mondo a gareggiare in Formula 1, su Maserati. Le prime donne pugili risalgono al 1700: Elisabeth Wilkinson combatteva in Inghilterra contro donne e uomini.

Ma per vedere la boxe femminile ai Giochi Olimpici fuori dal ghetto dello sport dimostrativo si è dovuti arrivare a Londra 2012. La maratona era un altro tabù. Nel 1896 la greca Stamàta Revithi si mise in testa di partecipare all’Olimpiade di Atene, ma non le permisero di iscriversi perché non era un maschio: lei partì lo stesso da Maratona, ma prima che entrasse nello stadio Panathinaiko i poliziotti la bloccarono. Dovettero passare più di 70 anni. Il 19 aprile 1967 una ventenne americana decise di anticipare la rivoluzione imminente: si iscrisse alla maratona di Boston usando soltanto le iniziali, K.V. Switzer. Nessuno poteva immaginare che K.V. stesse per Katrine Virginia, più semplicemente Kathy.

Quando la videro correre con i ricci al vento, capirono subito che si trattava di un sacrilegio: tentarono di fermarla con le cattive, ma il suo fidanzato la difese, rimettendoci il posto nella selezione olimpica per Messico ‘68. Kathy riuscì a finire la sua gara, e sette anni dopo vinse la maratona di New York, ormai aperta alle donne. E il rugby? Sport maschio per eccellenza, «virile» per statuto secondo la federazione italiana: nel Regno Unito le donne cominciarono prima che altrove a praticarlo, ma all’inizio era solo per beneficenza e a porte chiuse. Dal 1996 esiste una versione femminile del Sei Nazioni.

La pista della paura

L’ultimo soffitto di cristallo dello sport immaginatelo sopra una pista da sci ripida come un canyon: la Streif, i 3.312 metri più affascinanti e paurosi del mondo. Kitzbühel, Tirolo, Austria. Il cancelletto di partenza della discesa libera è a 1.665 metri sul livello del mare, il traguardo a 805 metri. Di solito prima del via gli sciatori scherzano e chiacchierano tra loro: a Kitzbühel invece c’è un silenzio irreale. È paura.

I migliori discesisti del mondo arrivano ad accelerare da 0 a 60 km orari in appena 5 secondi dal momento in cui si rovesciano sulla pista. Da lì in avanti è un susseguirsi di baratri, trappole per topi (letteralmente: c’è un tratto che si chiama Mausefalle, una voragine di circa ottanta metri), curve a 180°, esse strettissime fino all’Haubsergkante, la parte più pericolosa e affascinante: il salto, una curva verso sinistra in cui la forza centrifuga tocca i 3.5 G e un finale in cui il corpo – già stremato dalla fatica – subisce la massima pressione e la velocità raggiunge i 140 km/h. In alcuni tratti la pendenza è del 69 per cento, un inferno verticale. Il film Streif – One Hell of a Ride fu presentato nel 2016 come «pieno di neve, passione e testosterone», mettendo così in chiaro fin dal trailer che le donne non c’entravano. Troppa pressione, troppa pendenza, troppa velocità. La storia della Streif è una leggenda che si nutre delle sue vittime: le cadute di Gattermann, Vitalini, Stemmle, Ortlieb, Albrecht e Strobl si tramandano come le leggende degli orchi che devono fare paura ai bambini. Lo scorso anno toccò al norvegese Henrik Röa: si ribaltò più volte a 136 all’ora mentre gli sci volavano via. Lo svizzero Marco Odermatt, che evitò la caduta per un soffio, la definì «un’esperienza di pre morte».

Hermann Maier, l’austriaco vincitore di 4 medaglie olimpiche, ha detto che mandare le donne a correre sulla Streif «non è una buona idea, ognuno ha il proprio limite, per loro la pista più dura è quella di Cortina». Un altro ex campione austriaco, Hans Knauss, argento in Super G a Nagano 1998, che perse un anno dopo una caduta sulla Streif nel 2001, ha concluso che «qui l’emancipazione sarebbe fuori luogo». Il tedesco Markus Wasmeier, campione olimpico a Lillehammer trent’anni fa, è stato ancora più diretto: «Ci sono semplicemente dei limiti a ciò che le donne possono fare e ottenere. Come discesa di allenamento, una volta, le singole donne potrebbero farlo. Ma nemmeno una a velocità di gara. Nemmeno Lindsey Vonn. Sarebbe un suicidio».

La sfida di Vonn

In realtà la fuoriclasse americana, che dallo sci ha avuto tutto, ha voluto provare: un anno fa è scesa dalla Streif, oltretutto di notte. Un modo per spostare i confini, per provare a scardinare il ghetto in cui i maschi hanno provato a rinchiudere le femmine. Ma anche in quel caso non era una gara a tutta velocità: soltanto una sfida con sé stessa e con la storia.

Rosi Mittermaier, leggenda tedesca della discesa, campionessa olimpica e mondiale a Innsbruck 1976, qualche anno fa disse teatralmente che «solo gli uomini possono sopravvivere alla Streif». Sofia Goggia, che non ha mai preteso di gareggiare sulla pista più famosa del mondo, disse di peggio, tentando di rispondere a chi le chiedeva se ci sono atleti omosessuali nello sci. «Tra le donne qualcuna sì. Tra gli uomini direi di no. Devono gettarsi giù dalla Streif di Kitz». Il solito stereotipo degli uomini con le palle, l’eterno richiamo al testosterone. O più semplicemente quello che molti pensano, da Maier a Mittermaier passando per Wasmeier: cioè che gli uomini valgono un po’ di più.

Quando invece si poteva

Però non è sempre stato così: c’è stato un tempo in cui sulla Streif gareggiavano anche le donne, a partire dagli anni Trenta. La pista è stata progettata per un’epoca in cui lo sci non era veloce come adesso: i materiali attuali e la neve artificiale rendono la Streif enormemente più pericolosa. «Il coraggio che ci vuole per buttarsi giù da lassù però non cambia», racconta con una risata Christl Staffner Herbert, 84 anni il prossimo aprile. È nata a Kitzbühel, e la Streif faceva parte del suo paesaggio familiare.

«Eravamo giovani, abbiamo rischiato anche un po’ la vita, a noi ragazze piaceva tanto sciare». Da piccola scendeva con gli stivaletti di pelle, a 16 anni vinse la sua prima gara allo Stelvio, nel 1964 a Innsbruck sarebbe stata scelta per consegnare la fiamma olimpica nelle mani di Josl Rieder all’apertura dei Giochi Olimpici. Ma proprio al principio degli anni Sessanta ci fu il punto di svolta, quando l’attrezzatura e la preparazione della neve consigliarono di dividere le piste a seconda del sesso.

Christl aveva ventun anni nel 1961, e faceva parte della nazionale austriaca che prese parte all’ultima gara sulla Streif, poi le discese femminili furono spostate a Bad Gastein. «Protestammo molto, ma fu tutto inutile». Quell’ultima discesa dalla Streif la vinse Traudl Hecher, che aveva 17 anni: dopo una luminosa carriera sposò un teologo e diventò mamma di due campioni di sci: Elisabeth e Stephan Görgl. Christl invece andò a insegnare sulle nevi di Aspen, in Colorado: tra i suoi allievi attori di Hollywood, cantanti famosi e anche Bobby Kennedy, il fratello del presidente. La chiamavano «la ragazza della Streif».

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