Il Trentino meridionale è noto per l’attraversamento del fronte della prima guerra mondiale. Si conoscono i forti, le trincee, i piccoli cimiteri militari tra i monti.

Una delle valli più meridionali è quella di Terragnolo, già prima della guerra una tra le più povere, caratterizzata da pendii fortemente scoscesi, vecchi terrazzamenti - dove, tra le altre colture, si trovava il grano saraceno - oggi in buona parte abbandonati e fatti propri dal bosco in espansione.

Da questa valle, la cui biodiversità e bellezza selvaggia sono messe a rischio dalla sciagurata intenzione di realizzare un prolungamento autostradale di dubbia utilità (A31 Valdastico Nord), alla fine dell’ottocento partirono numerosi abitanti, in cerca di lavoro all’estero. Molti dall’intera Vallagarina migrarono alla volta del Brasile nel 1876, per questo oggi, diversi paesi della valle sono gemellati con la Città di Bento Gonsalves nel Rio Grande do Sul. Migravano allora, come si migra sempre, in cerca di un futuro migliore, in cerca di opportunità che erano negate nei territori di partenza. I migranti portarono con sé, oltre alle conoscenze viticole, anche le barbatelle (talee o sarmenti dai quali si riproducono per via agamica le piante di vite) di quei vitigni della loro terra, da coltivare a destinazione, per non rinunciare a un elemento culturale identitario, quale il consumo di vino, che avrebbe preservato il legame con la terra natia.

Migrazioni di viticoltori

Sono molte le esperienze di migrazione accompagnate alla nascita di esperienze viticole, in particolare in Sud America ma non solo. Per questo oggi troviamo in Argentina Barbera e Croatina, vitigni originari dell’areale piemontese e oltrepadano. In Brasile, oltre ai trentini, arrivarono italiani provenienti da altre zone rurali povere del settentrione, che portarono nei loro miseri bagagli - e spesso nell’orlo delle gonne indossate dalle donne - anche le sementi usate abitualmente e le barbatelle dei loro vigneti. Tuttavia il clima caldo e umido, oltre alla presenza di parassiti, impedì la coltivazione della varietà di vitis vinifera, consentendo l’affermazione di una vite americana: l’Isabella, altrimenti conosciuta come uva fragola (o fraga).

Accanto alla narrazione dei successi dell’emigrazione italiana legata all’affermarsi della viticoltura nel mondo, è importante l’analisi delle cause che hanno portato, in momenti diversi, contadini e viticoltori a spostarsi dalle proprie terre per andare a scoprirne di nuove, decidere di prendersene cura e modificarne il paesaggio. Le migrazioni dai territori del nord est verso le Americhe sono descritte in molte pubblicazioni e sono parte del repertorio popolare di canzoni, scritti, storie e romanzi da cui queste cause, molto simili a quelle di oggi, emergono con chiarezza: la condizione sociale di estrema povertà, guerre, e soprattutto il venire meno di quelle condizioni climatiche o naturali che permettevano la sussistenza. Quindi le alluvioni, la siccità, l’arrivo di parassiti sconosciuti, come fu per le malattie provenienti dalle americhe che colpirono la viticoltura: peronospora, oidio, e soprattutto la fillossera, la cui epidemia mise in ginocchio l’intero comparto viticolo europeo tra la seconda metà e la fine del XIX secolo.

In un'era caratterizzata da una crisi climatica, dovuta a cause antropiche, è assolutamente necessario essere consapevoli che il cambiamento delle condizioni ambientali spinge a migrare; per questo è doveroso attivarsi per la conversione ecologica e la decarbonizzazione, e per il sostegno agli interventi di mitigazione climatica a vantaggio della popolazioni maggiormente esposte alle conseguenze di questa crisi. Come le numerose comunità agricole che, in molti luoghi del mondo, sopravvivono in ecosistemi caratterizzati da un fragile equilibrio. Sulla Cordillera Blanca in Perù, ad esempio, le comunità rurali di montagna vivono dei loro raccolti salvaguardando una immensa ricchezza di biodiversità agricola. Questo avviene grazie alla presenza dei ghiacciai che permettono la disponibilità di acqua nel periodo di crescita delle colture, ma non ci sarà nessuna possibilità di sussistenza quando i ghiacci saranno totalmente fusi.

Stessa storia in Europa con intere aree a rischio desertificazione, ovvero infertilità del suolo, con conseguente minore produzione alimentare e diminuzione della resilienza naturale del terreno, fenomeno che colpisce soprattutto l’area mediterranea. Lo sappiamo bene noi di Terra!, che abbiamo deciso di scommettere sulla piccola e preziosa isola di Lampedusa, dove abbiamo creato la prima cooperativa agricola di comunità “Agricola Mpidusa”. Una realtà unica, che prova a lottare contro la desertificazione producendo cibo su un ettaro di terreno con tecniche di agricoltura rigenerativa.

Il progetto, nato coinvolgendo la comunità dell’isola, ha dato vita a una esperienza produttiva che vuole contribuire alla sicurezza e sovranità alimentare del territorio. Ad oggi non c’è quasi nessuno che lavora la terra e la grande maggioranza del cibo viene importato con le navi. Agricola Mpidusa nasce per dimostrare che si può fare qualcosa di diverso e che, anche in tempi di crisi climatica, l’agricoltura ecologica può fiorire in zone di frontiera, e dare lavoro e prospettive alle comunità locali. Siamo nel cuore di quello che gli scienziati chiamano un “hot spot climatico”, dove gli effetti del riscaldamento globale sono più evidenti e in un luogo simbolo delle migrazioni contemporanee. Anche per questo, il senso del progetto va oltre il servizio alla comunità, pur fondamentale, per dimostrare che con l'agroecologia possiamo vincere la sfida ecologica anche nei luoghi più difficili e che l’unica politica necessaria (e urgente) è quella che pone al centro la rigenerazione dei suoli.

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