Senza ghiaccio non c’è cocktail: la ragione sta nell’abbondanza di ghiaccio naturale che ha spinto in alto la domanda di questo prodotto. Ma il forte e indiscutibile collegamento tra il commercio americano e la diffusione dei cocktail a base di ghiaccio è testimoniato anche dalla reputazione dei Caraibi e di Cuba in particolare in questo tipo di preparazioni
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Una vecchia regola della mixologia vuole che l’ingrediente principale di un cocktail sia il ghiaccio.
Poi ci sono anche quelli molto raffinati che possono intrattenervi per ore sul tipo di ghiaccio giusto per quel determinato drink o quella determinata miscela di alcolici, ma noi non siamo così ricercati e quindi ci accontentiamo di capire che ruolo abbia avuto questa attività nella storia del commercio del ghiaccio e poi della sua produzione industriale.
Perché una cosa che sembra abbastanza evidente è che, così come la birra ha avuto un legame forte con lo sviluppo della refrigerazione meccanica, inizialmente i cocktail si sono diffusi dove c’era abbondanza di ghiaccio naturale e, a loro volta, hanno spinto in alto la domanda di questo prodotto.
Non solo, ma proprio la moda dei cocktail permise al ghiaccio naturale di mantenere un certo vantaggio, quantomeno dal punto di vista estetico, per almeno un decennio nei confronti di quello artificiale.
Il padre dei cocktail
Così, la storia della mixologia è anche la storia della conquista del mondo da parte del ghiaccio americano.
Anche se alcuni storici dell’alimentazione individuano nel punch inglese il progenitore dei moderni cocktail, è chiaro che lo sviluppo di queste bevande fredde preparate sul momento sia avvenuto negli Stati Uniti, in particolare tra Boston e New York, così come la codificazione delle ricette e la trasformazione di questa attività in un fatto culturale, quasi identitario, è sicuramente avvenuta in America.
La stessa figura del barman è sicuramente nata in America e anche questa, in qualche modo, è diventata iconica di quel mondo e di quella cultura, basti pensare al classico saloon che è un luogo simbolo delle comunità che vivevano sulla frontiera.
Senza alcun dubbio era americano il padre dell’arte di miscelare, quel Jerry Thomas che nel 1862 scrisse il primo ricettario per cocktail e drink.
E proprio la diffusione di quel tipo di bevande, unita all’evoluzione dei locali nei quali venivano distribuiti, che non a caso vengono definiti ancora oggi «american bar», diede un’ulteriore spinta alla domanda di ghiaccio in Europa.
I produttori di ghiaccio naturale americani erano estremamente fiduciosi sulla forza trainante di queste nuove bevande per quanto riguardava il consumo di ghiaccio.
Nel 1842, quando la Gage, Hittinger & Co., una delle più importanti imprese di estrazione e trasporto di ghiaccio di Boston, decise di aprire una succursale a Londra, utilizzò proprio i cocktail come strumento di promozione.
Venne ingaggiato un gruppo di circa quaranta baristi di Boston che furono poi spediti in Inghilterra su una nave che sarebbe arrivata a Londra prima del ghiaccio estratto dal Fresh Pond.
Quando il carico refrigerante arrivò, era già stato allestito un lussuoso salone nel centro della capitale «nel quale gli inglesi vennero iniziati ai misteri dei julep e dei cocktails, oltre ad altre svariate abitudini bostoniane».
Ragione del successo
Anche quello che probabilmente è il più famoso e apprezzato cocktail del mondo, il gin tonic, è facile che debba il proprio successo al ghiaccio americano.
La storia più accreditata di questo drink vuole che sia nato in India intorno alla metà dell’Ottocento con lo scopo di indurre le truppe inglesi ad assumere chinino, contenuto nell’acqua tonica, per combattere la malaria.
Ma un conto è una bevanda che benché sia piacevolmente alcolica grazie al gin, è quasi una medicina, un altro è un drink freddo con molto ghiaccio dentro e che quindi diventa l’accompagnamento ideale per piacevoli momenti conviviali.
E noi sappiamo che in India arrivava il ghiaccio di Tudor, certo, a costi non propriamente accessibili per la bassa truppa, ma sicuramente alla portata dell’élite coloniale e degli ufficiali della Regina Vittoria.
Del resto, anche la stessa acqua tonica non era un prodotto di largo consumo in quel periodo; l’invenzione si deve allo svizzero Schwepp, fondatore della celebre Schweppes, quindi per gli inglesi in India, ma anche per quelli in Inghilterra, si trattava di un prodotto di importazione e rivolto a consumatori alla ricerca di esperienze gustative inusuali.
Insomma, per farla breve, è estremamente probabile che i soldati inglesi in India non bevessero il gin tonic, ma per combattere la malaria si limitassero consumare gin, con effetti poco apprezzabili dal punto di vista medico, ma molto soddisfacenti dal punto di vista del morale…
Ma il forte e indiscutibile collegamento tra il commercio americano e la diffusione dei cocktail a base di ghiaccio è testimoniato anche dalla reputazione dei Caraibi e di Cuba in particolare in questo tipo di preparazioni.
È evidente che il ghiaccio per preparare un daiquiri o una piña colada non era di produzione locale, ma noi sappiamo anche che all’Avana il ghiaccio non scarseggiava fin dai primi anni dell’Ottocento, quando Tudor impiantò nella capitale cubana le sue ghiacciaie, facendone il principale centro di smistamento dei suoi traffici intercontinentali.
Se a questa disponibilità del prodotto si unisce la domanda locale rappresentata dagli stessi americani che hanno sempre considerato Cuba uno dei loro luoghi di villeggiatura preferiti, è facile intuire come nell’isola si siano concentrate le competenze e il gusto per cocktail e drink sempre più evoluti, fino a fare della cosiddetta mixologia caraibica un modello per tutto il mondo.
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