Come funziona il cervello di una mosca? E quello di un uccello? Quando possiamo parlare di coscienza? Cosa distingue gli esseri umani dagli altri animali? Sono solo alcune delle domande alla base del lavoro di Giorgio Vallortigara, professore di Neuroscienze e cognizione animale presso l’università di Trento.

Nel suo ultimo libro Pensieri della mosca con la testa storta (Adelphi) l’indagare sui cervelli animali diventa una riflessione più ampia sulle origini della coscienza, sul confronto fra animali e ambiente, il tutto a partire da alcuni dati di fatto sorprendenti come le capacità di animali con cervelli molto piccoli di compiere distinzioni e categorizzazioni che ci sembrano intuitivamente al di fuori della loro portata.

Quali sono le differenze di massima fra i cervelli degli animali e quelli degli esseri umani?

Noi siamo animali tra gli altri animali. Il problema è la categorizzazione, animali è una categoria vasta e dicendo “animali” a chi mi riferisco? Agli scimpanzé, ai capibara, alle zecche, al moscerino, all’ape? Solo attraverso il confronto singolo riusciamo a capirci qualche cosa, perché la struttura del sistema nervoso è fatta dalle stesse unità.

Tutti i cervelli contengono cellule nervose, i neuroni sono fondamentalmente simili, un esperto non sarebbe in grado di distinguere un’immagine al microscopio di neuroni di un calamaro o di un essere umano.

Una cosa che si scopre leggendo Pensieri della mosca con la testa storta è che cervelli molto piccoli riescono a fare delle cose già molto complesse.

Recentemente abbiamo imparato che abilità che tradizionalmente consideravamo complesse possono essere svolte da una manciata di neuroni. Per esempio pensavamo che riconoscere un volto fosse una cosa complicata, invece lo sanno fare le api pur non avendo una dotazione specifica per il compito e meno di un milione di neuroni nel loro ganglio encefalico. Pensavamo che formare concetti, categorie, rappresentasse uno dei vertici del pensiero. Per esempio la capacità di comprendere una nozione astratta di uguale e diverso, oppure la capacità di riconoscere lo stile grafico di un pittore, di distinguere quadri di Monet da quadri di Picasso. Si è visto che in realtà con addestramenti tutto sommato semplici, un’ape può maneggiare una distinzione del genere. Non la distinzione storico-culturale, intendiamoci, ma la distinzione percettiva, grafica, quella a colpo d’occhio. Per esempio può riconoscere un quadro cubista da uno impressionista. Se hai molti neuroni a disposizione puoi permetterti il lusso di codificare gli esemplari individuali, ma se ne hai pochi in un certo senso sei obbligato a formare concetti, categorie, cioè a raggruppare assieme stimoli diversi e considerarli come identici ai fini di una determinata risposta.

Cambiando piano in maniera forse temeraria la tendenza della nostra società attraverso i media di massa e digitali a semplificare il mondo è per certi versi una riduzione delle possibilità di pensiero che invece avremmo?

È terribilmente utile avere delle memorie grandi capaci di contenere molte informazioni però teniamo presente che non dimenticare niente impedisce anche di pensare, questa è la morale della storia Funes il memorioso di Borges, la vicenda di un ragazzino che non dimenticava nulla. Per pensare devi escludere certe informazioni, devi metterle da parte o le devi raggruppare per poter connettere le cose in maniera sensata. Se ogni volta che pensi a qualche cosa te ne vengono in mente anche una moltitudine di altre è un disastro, la tragedia di Funes appunto.

C’è una differenza anche qualitativa fra il categorizzare degli animali con dei cervelli più semplici e il categorizzare invece con cervelli più complessi, più evoluti?

C’è una differenza per la nostra specie che ha a disposizione una forma di categorizzazione che non ha eguali, il linguaggio verbale. Il linguaggio è uno strumento potentissimo per categorizzare il mondo, una specie di protesi cognitiva che non ha cambiato i meccanismi elementari del pensiero ma li ha però enormemente amplificati, potenziati, soprattutto per quello che riguarda la possibilità che abbiamo di trasmettere, di condividere quello che abbiamo imparato con i nostri simili.

Ragionamenti sofisticati come ad esempio quello che ci consente di compiere inferenze transitive del tipo «se Aldo è più alto di Giovanni e Giovanni è più alto di Giacobbe allora che cosa ne ricavi? Che Aldo è più alto di Giacobbe» sembrerebbero possibili solo attraverso il linguaggio, ma in realtà li maneggiano tranquillamente anche animali come pesci, galline e vespe.

La differenza è che a una gallina o a una vespa quell’abilità serve solamente a un livello individuale, è come se un marchingegno interno fornisse la risposta giusta «Aldo è più alto di Giacobbe», la cosa però si ferma lì. Noi invece siamo capaci di comunicare gli esiti dei nostri processi di pensiero tramite il linguaggio, dire ad esempio a un amico quale è l’esito del processo inferenziale che abbiamo condotto perché potrebbe essere utile anche a lui in certe circostanze.

Questo tipo di informazione può essere convogliata attraverso il linguaggio, non cambia i meccanismi inferenziali ma il pensiero diventa condiviso e condivisibile ed è questa la forza degli esseri umani. La nostra intelligenza non è dentro la testa, è in un certo senso fuori, è estesa nel mondo, negli oggetti, negli edifici, nelle scuole, nelle biblioteche, nelle sale di registrazione... In tutto quello che fa la cultura, che costituisce la cultura umana.

Esistono negli animali esempi di trasmissione culturale fra generazioni?

Certo, esistono ma vi sono differenze quantitative così importanti rispetto alla trasmissione culturale umana che in un certo senso le differenze diventano differenze di qualità. Ci sono popolazioni locali di scimpanzé che hanno imparato in certi posti in Africa a rompere delle noci particolarmente dure e resistenti, con un sistema tipo incudine e martello.

Cercano delle pietre appropriate, appoggiano la noce e poi le aprono con un’altra pietra o un bastone e questa è una tradizione locale. Lo fanno degli scimpanzé in certe zone della Costa d’Avorio mentre a non molti chilometri di distanza un’altra popolazione della stessa specie non lo fa. Quindi è proprio cultura, lo stesso vale per i canti degli uccelli, dei passeriformi. Ci sono dialetti locali che vengono trasmessi culturalmente e che sono presenti all’interno di una certa specie in una locazione geografica e non un’altra – un po’ l’equivalente di una parlata napoletana o veneta, per capirci. Fenomeni di questo tipo esistono ma sono molto limitati e soprattutto non hanno un’enorme possibilità di diffusione perché non posseggono quel mezzo straordinario è il linguaggio verbale.

Tu non sei d’accordo con chi sostiene che la coscienza sia una qualità emergente del cervello oltre una certa complessità.

La mia obiezione è per certi aspetti basata sul buon senso perché coscienza significa sostanzialmente avere esperienza, cioè sentire qualche cosa, provare qualche cosa. Ed è un tipo di attività mentale piuttosto rara, gran parte della nostra vita mentale non è consapevole, e totalmente distinta dalle cose di cui abbiamo parlato finora: pensare, ragionare, decidere, risolvere problemi, fare inferenze… Tutte queste cose le sappiamo fare noi, le sanno fare anche altri organismi, ma sono diverse dall’avere esperienza, dal sentire qualche cosa, dal provare qualche cosa e noi abbiamo molti dati soprattutto dalla clinica neurologica che mostrano questo tipo di dissociazione. Il fatto cioè che in molte circostanze le persone o altri animali sappiano fare cose complicate, cioè manifestare comportamenti sofisticati senza che questi siano accompagnati da coscienza, da consapevolezza.

C’è un legame fra linguaggio e coscienza?

Non credo, il livello più elementare di coscienza di cui sto parlando, cioè il sentire qualcosa, il provare qualcosa è disponibile per esempio ai piccoli della nostra specie prima che imparino a parlare.

È una questione non irrilevante perché è esistita una tradizione pediatrica fino a epoca anche recente secondo la quale i neonati non avevano bisogno di anestesie o di altre pratiche perché non sentivano dolore.

A me questa pare una sciocchezza. Tutte le creature che non possiedono un linguaggio o perché non lo hanno ancora sviluppato, come i piccoli della nostra specie, o perché l’hanno perduto a causa di una patologia, o perché non fa parte della loro dotazione biologica, come accade per gli altri animali, credo nondimeno posseggano quel livello elementare di coscienza, di consapevolezza che consiste nel sentire qualcosa, nel provare qualche cosa.

Il linguaggio probabilmente è importante per le forme più sofisticate di coscienza, per quello che potremmo chiamare meta-coscienza, per parlare e riflettere sulla coscienza, ovvero quella che chiamiamo autoconsapevolezza. Ma non per il sentire nelle sue forme più elementari.

La conversazione integrale è disponibile nel Podcast PDR su YouTube, Spotify e tutti canali podcast.

 

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