Gli ulivi giunsero in Argentina insieme alla vite e agli spagnoli, nel corso del Cinquecento. Solo un secolo più tardi tuttavia la corona di Spagna ordinò di tagliarli tutti. Non volevano si producesse olio d’oliva nelle colonie, che al contrario dovevano fungere da nuovo mercato per l’olio europeo. Qualche ulivo però si salvò e da quei sopravvissuti prese vita all’unica varietà argentina di ulivo, l’Arauco. Cresce soprattutto in zone molto calde come San Juan, La Rioja o Mendoza. Ne viene un olio denso, piccante e amaro, saporitissimo.

«L’argentino medio questo olio nemmeno lo conosce» racconta Diego Bigongiari, giornalista italoargentino e autore, fra le altre cose, della guida Los Aceites de Oliva de Argentina. In ogni caso per secoli l’olio d’oliva restò una produzione più che secondaria, e di conseguenza anche l’utilizzo rimase accessorio.

La migrazione italiana in Argentina cominciò invece a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento. In trent’anni ne sbarcarono circa 800mila. Poi altri 734 mila fra il 1901 e il 1910. I flussi continuarono in numero minore ma sostenuto nel decennio della Grande Guerra, aumentarono di nuovo e sotto il regime fascista e diminuirono ma senza arrestarsi dopo gli anni Sessanta. Si tratta di circa 3 milioni in un secolo: quasi tutti, almeno a Buenos Aires, hanno qualche avo italiano.

In valigia

Con sé gli emigrati italiani portarono la pasta fatta in casa, l’insalata, i formaggi, i salumi. Introdussero persino la cottura alla brace per la carne, da cui il famoso Asado. Col tempo la loro cucina si integrò e trasformò, ma resta perfettamente riconoscibile. Fra i piatti tipici, oltre a carne, empanadas o humitas tipiche della cultura culinaria andina, ci sono la pizza, la pasta fresca, sughi simili a quelli italiani come il ragù. Oppure la Milanesa, una sorta di cotoletta con salsa di pomodoro e formaggio.

Per quanto possano essere reinterpretati i piatti, è difficile non sentirsi a casa. Tranne per un dettaglio, che cambia tutto. L’olio d’oliva. Per quanto si possa essere profondamente modificata e ibridata la cucina di origine italiana in questo secolo e mezzo, è l’olio l’elemento più estraneo. Certo: rispetto ai secoli precedenti, a partire da fine Ottocento inevitabilmente la domanda crebbe, ma restò minoritaria e si risolveva perlopiù importando dall’Europa. Non divenne, nemmeno in quei decenni di forte immigrazione italiana, un ingrediente imprescindibile. Solo negli anni Cinquanta, Perón provò a incentivare la coltivazione di ulivi da olio, comunque con scarsi risultati.

Le ragioni, spiega Diego Bigongiari, sono sia economiche che culturali. Per molte ricette classiche argentine si è sempre usato il grasso di manzo o di maiale, che per altro nelle campagne era molto più a portata di mano di quanto potesse esserlo qualsiasi tipo di olio. Oggi si compra più semplicemente al supermercato e si usa tanto per le empanadas quanto per il pane. Da decenni inoltre l’Argentina è uno dei principali produttori al mondo di oli di semi, in particolare mais, soia e girasole: impossibile per l’olio d’oliva competere, sia in termini di diffusione che di costo.

Concorrenza durissima

L’olio d’oliva infatti costa tantissimo, fra i 15 e i 20 euro al litro: non c’è gara rispetto all’olio di semi che si aggira sui 3 euro al litro. «Difficile spiegare perché il costo sia così alto. Ha a che fare in parte col fatto che il vetro e in generale il packaging qui costano di più, ma non è una ragione sufficiente. Credo piuttosto che i produttori preferiscano vendere di meno a di più» osserva Diego Bigongiari, aggiungendo che comunque negli ultimi vent’anni la situazione in parte è cambiata: «La qualità è migliorata molto: si sono piantati uliveti nel sud della provincia de Buenos Aires e nel nord della Patagonia, dove si ottengono oli migliori che nelle zone troppo calde come La Rioja o Catamarca».

«Ci sono ormai almeno una ventina di varietà, per lo più importate da Spagna e Italia – continua Bigongiari –. Anche nei buoni ristoranti si è imposto il buon olio d’oliva. Cosa non scontata perché mediamente in un ristorante trovi la bottiglia d’olio sul tavolo, magari anche di una buona marca, ma dentro ci mettono le peggiori schifezze. Del resto l’argentino medio ancora oggi non distingue un buon olio da uno difettoso, anzi, i difetti sono considerati virtù e le virtù (gli aromi e sapori verdi, piccanti, amari) difetti. Anni fa ho fatto un esperimento. Ho fatto assaggiare dell’olio nuovo buono, poi dell’olio neutro, poco saporito, e infine dell’olio guasto. Hanno quasi tutti preferito l’olio guasto».

Nel consumo popolare si continua a preferire l’olio di semi, in parte perché con un litro di buon olio di oliva si comprano 10 litri di olio di semi, in parte per gusto e abitudine. Addirittura negli anni Settanta si era diffusa la diceria che l’olio d’oliva avesse un altissimo contenuto di colesterolo: venne presto smentita ma gli valse vent’anni di cattiva reputazione.

Il consumo attuale medio annuo è ancora bassissimo: si parla di 250 ml a persona, circa 100 volte meno che uno spagnolo, italiano o greco, ma il quadruplo di quanto se ne consumasse negli anni Novanta. Il consumo di olio di semi si attesta a circa 12 litri annui.

Risultato: se non si frequentano ristoranti di alto livello ma trattorie alla portata di tutti, si rischia di incappare in piatti di pasta fresca potenzialmente buoni, rovinati da un olio tremendo. Difficile dire se si tratti di olio di semi o di pessimo olio d’oliva.

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