I profili Instagram dei protagonisti stanno crescendo a vista d’occhio, segno che la serie sta funzionando. Ho dormito poco per vedere, di seguito, tutte le otto puntate di Zero su Netflix, storia ispirata al romanzo Non ho mai avuto la mia età di Antonio Dikele Distefano. «Sono uno come tanti, invisibile come i quartieri dove abitiamo. Sono quello delle pizze, un modo come un altro per dire nessuno». Esordisce così il protagonista, Zero, mentre attraversa Milano in bici per consegnare la cena a giovani ricchi annoiati che passano le notti a investire in Bitcoin. Non ho finito la prima puntata e già mi vergogno del mio istinto da “suprematista bianca” che mi porta a pensare con disappunto, anche solo per pochi secondi, che nei 190 paesi del mondo in cui la serie è tradotta vedranno i milanesi come persone insopportabili (o forse siamo davvero così?). Per fortuna poi c’è Zero, un ragazzo italiano di seconda generazione a cui vuoi bene fin dalla prima scena. Perché, insieme al suo gruppo di amici, è spinto dalla causa nobile di difendere il suo quartiere dalla speculazione edilizia che vuole trasferirli fuori città.

La realtà non è poi così distante. Anche l’attore protagonista è uno che ce l’ha fatta passando per qualche imprevisto. Giuseppe Dave Seke, padovano di origine congolese faceva il magazziniere e ne ha passate tante prima di arrivare sul set. E come lui gli altri attori, che sperano che il progetto faccia da apripista, non solo al cinema. «La vittima, la prostituta, l’emarginata: nei film italiani c’è sempre lo stesso ruolo per una ragazza di colore», spiega l’attrice Daniela Scattolin. «Zero invece ci ha permesso di raccontare la nostra normalità». Le fa eco lo scrittore Distefano: «Ciò che ci accomuna tutti, non è il colore della pelle, ma le emozioni che proviamo. Zero è la storia di chi impara ad accettare la propria diversità, una nostra storia che spero diventi di tutti».

A casa di amici

Quel “nostro” e “vostro” che vorremmo non esistesse ma che ancora pesa. A cui di certo non ho pensato l’altro giorno quando, a casa di un amico, ho incontrato Madior Fall, italiano di origine senegalese nato a Parigi, che nella serie interpreta Inno. La situazione era informale, ma lui non ha mai abbassato la guardia, al punto da non bere neppure un bicchiere di vino. Davanti alla mia insistenza si è confidato. «Preferisco non dare mai l’idea sbagliata appena conosco qualcuno. Fin da piccolo ho imparato ad avere sempre la situazione sotto controllo. Se succede qualcosa i sospetti finiscono subito su di me». Una lama sul dito mi avrebbe fatto meno male.

Poi abbiamo riso insieme quando mi ha raccontato che, mentre si trovava a Roma per girare alcune scene della serie, è capitato che il tassista che lo andava a prendere la mattina in albergo, lo scambiasse per il cameriere. E quando lui, un giorno si è preso la briga di spiegargli che in realtà era un attore, quello continuava a chiedergli: «Ho capito che fai l’attore, ma di notte poi lavori qui?». Tornando a casa e ripensando alle sue parole, non ridevo per niente. E ho faticato ad addormentarmi riflettendo che anche io – che credo nell’inclusione, ho vissuto all’estero e ho frequentato persone di ogni provenienza – non ho trattenuto lo stupore quando ho scoperto che tra gli avi di Madior c’è Giovanni Battista Montini, conosciuto ai più come Papa Paolo VI. «Mia madre è italiana», ha aggiunto, sentendo il bisogno di darmi spiegazioni. «Non mi ferisce, ci sono abituato. La percezione di tanti è che il ragazzo nero possa avere al massimo la terza media». Altra coltellata.

Periferie di Milano

La musica è la colonna portante della serie. Per il progetto Mahmood ha scritto Zero e Marracash 64 bars (di paura). Due canzoni che ipnotizzano al primo ascolto. Non è un caso che entrambi gli artisti, cresciuti nella periferia milanese, abbiano voluto sostenere il progetto. Mahmood è cresciuto a Gratosoglio e Marracash alla Barona, dove è stata girata la serie. Entrambi sono orgogliosi dei loro quartieri e in silenzio contribuiscono a dare una mano. Anni fa, non proprio in silenzio e con un elefante vero circondato da centinaia di comparse, Marracash ha girato il video di Badabum Cha Cha davanti alle case popolari dove abitavano i suoi. Mahmood, a ottobre scorso avrebbe dovuto inaugurare un campo da calcio a Gratosoglio grazie a uno sponsor che chiedeva, al taglio del nastro, solo la sua presenza e quella del sindaco di Milano Beppe Sala. Si dice che l’artista volesse essere accompagnato da sua madre, per onorare la causa e presentarle il sindaco. Il Covid però è arrivato prima e non se n’è fatto niente.

Un campo da calcio in periferia può fare la differenza. Ora anche una serie televisiva. «C’è molto verde qui alla Barona, non vorrei vivere da nessun altra parte. Ti porto nei luoghi dove hanno girato se vuoi». Ha 21 anni, i suoi sono di origine senegalese ma lui è italiano. Vuole rimanere anonimo, «non voglio casini», mi dice. Gira su uno scooter TMax, ha una catena d’oro al collo e parla milanese. Pronuncia la e aperta quando mi chiede se ho un “biglietto” da visita da lasciargli. «Capisco che viviamo in un quartiere diverso quando salta in aria qualche auto, rubano i motorini o incendiano capannoni. L’altro giorno è successo (un incendio in un’autodemolizione, ndr) ma nessuno se ne cura».

Mentre parliamo passa davanti a noi una famiglia di arabi, madre, padre e figlio. Sono giovani, lei tiene per mano il marito, ha il fazzoletto in testa e mi sorride. «Li riconosciamo subito quelli che non abitano qui», mi istruisce il mio Caronte, osservando le mie ballerine. “La libertà si guadagna, non si compra” è la scritta su un muro. Poco distante da qui c’è “il fungo”, la piazza della Barona chiamata il Barrio’s, zona di aggregazione nata oltre vent’anni fa da un’idea di Don Gino Rigoldi. La serie Zero ambienta qui le scene, e i protagonisti chiamano il quartiere proprio Barrio. Due alberi hanno i tronchi coperti di stoffe colorate cucite tra loro, i murales sono enormi e fatti con cura. “Today skateboard, tomorrow hard work”, altra scritta. Quest’area, volutamente pacifica, stride con gli edifici-alveari poco distanti. Alcune case basse hanno le inferriate anche al secondo piano. “Ognuno merita il regime che sopporta” leggo su un marciapiede. Da lontano sembra un imponente totem aborigeno, invece è la chiesa San Giovanni Bono, costruita nel 1966. A colpo d’occhio fa impressione, c’è da chiedersi se nel centro di Milano avrebbero mai dato il via a un’opera così.

La percezione del diverso

«Lascio il cuore a casa quando sto tra i vicoli, ho imparato a non fidarmi già da piccolo», è la strofa di Fame Odio & Dolore di Abby6ix, rapper italiano di seconda generazione, originario del Burkina Fasu ma cresciuto alla Barona. Lo incontro. Oggi è una piccola star da centinaia di migliaia di visualizzazioni su YouTube, talmente devoto al quartiere che ha inserito il numero 6 nel suo pseudonimo, in onore del municipio 6 di Milano a cui appartiene.

«La Barona è bellissima, tutto qui mi ha ispirato», dice con trasporto. Anche lui ha già visto Zero. «Finalmente mostrano che ci siamo anche noi, spero che sia solo un inizio e che i registi ci raccontino in tutte le sfaccettature possibili. Agli occhi di chi vive in centro, di chi non è mischiato a gente “del genere” (di colore, ndr) non è normale vedere un ragazzo nero che studia medicina. Invece per noi l’inclusione è questa. Il ragazzo nero non fa solo il fattorino, ma può diventare avvocato o commercialista». Lui la cittadinanza italiana ce l’ha. «Ho amici da una vita che hanno perfino un contratto di lavoro ma per lo stato sono clandestini. Se passi tutta la tua vita in un territorio e frequenti le persone di quel posto, è giusto che tu venga trattato come loro», dice. «L’Italia oggi pensa allo straniero solo come l’immigrato sbarcato da Lampedusa, ma ci sono tanti figli di stranieri che sono qui da anni. Siamo noi: prima eravamo invisibili, ora stiamo entrando negli ingranaggi». La dote che ti ha salvato? «Fregarsene di quello che pensa la gente e non avere la mentalità della vittima».

«I social media, dal punto di vista dell’integrazione ci hanno aiutato. Lì si è creata un’idea generale del giusto e dello sbagliato, lì siamo tutti uguali», mi spiega Madior, che su Instagram sta guadagnando follower di ora in ora. «Lo noto con i miei fratelli più piccoli, di 16 e 18 anni, che non hanno la percezione del diverso». Poi aggiunge. «I rapper più famosi, quelli da milioni di follower sono neri e li seguono tutti, anche i bianchi. Lo ius soli in Italia sarà un passaggio naturale». Sulla naturalezza dello ius soli mi lasciano meno dubbi le parole di mio nipote Achille, 12 anni. Quando l’altro giorno gli ho chiesto chi fosse il più bravo della classe lui, senza esitazione, ha risposto Hu. «Ah è cinese», ha commentato la “suprematista bianca” che talvolta alberga in me. E lui, guardandomi come si osserva un marziano appena sceso da un’astronave: «Ma cosa dici zia, è italiano».


Antonio Dikele Distefano è autore del libro Non ho mai avuto la mia età, edito da Mondadori e da cui è stata tratta la nuova serie Netflix Zero

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