Quanti anni e generazioni devono passare prima che qualcosa che è stato lo Zeitgeist debba essere ricontestualizzato? Per chi imparava a leggere e scrivere all’inizio del secolo, Le correzioni fu uno dei tentativi più apprezzati e amati di Grande romanzo americano. La chimera del Gra ha funzionato per tutta la seconda metà del Novecento come carota dietro cui far correre i talenti dell’editoria più muscolare dell’occidente.

Le correzioni era stato preannunciato da un saggio per Harper’s del 1996, “Perchance to dream: in the age of images, a reason to write novels”, dove il giovane scrittore sosteneva che il romanzo poteva ancora descrivere la realtà in modo potente. Forse cercava di creare un discorso che rendesse comprensibili i suoi romanzi sociali: La ventisettesima città e Forte movimento non gli avevano dato la consacrazione che sperava.

Brillanti postmoderni

A livello di generazione, Jonathan Franzen era stato messo nella lista di uomini brillanti postmoderni – con il suo amico David Foster Wallace e i vari Saunders, Moody, Antrim, Eggers, animatori di riviste divertenti e virtuose, autori di romanzi e racconti divertenti e virtuosistici.

Lui, però, non si sentiva, a differenza degli altri, figlio degli sperimentatori degli anni Settanta: Franzen voleva fare, detto semplicemente, letteratura seria. Romanzi lunghi che raccontavano, come Zola o Dickens o Tolstoj, la complessità della società, per far crescere chi legge. In un certo senso era davvero postmoderno, perché sentiva di poter riusare forme e ispirazioni del passato secondo le necessità del presente, come se il presente ponesse questioni piuttosto di contenuto che di forma.

Guidò tutto solo la riscossa del realismo sociale staccandolo dal puro intrattenimento senza buttare il bambino (del godimento dei lettori) con l’acqua sporca (dell’intrattenimento, appunto). Il romanzo sociale americano, in realtà, aveva da pochi anni raggiunto un suo ermetico apice con Underworld di Don DeLillo, ma questo omaggio alla spazzatura come landscape art dell’occidente lasciava soli e perduti i lettori perché era una storia-puzzle su degli individui persi nella società di massa e nella storia – gli mancava una famiglia stile Simpson con cui empatizzare.

Prima, invece, in Rumore Bianco, DeLillo aveva compensato la freddezza dei temi “sociali” con l’empatia della storia famigliare. Allo stesso modo, e con più convinzione, Franzen utilizza la famiglia, specie nelle Correzioni e in Libertà, come una sorta di coperta di Linus cui aggrapparci per esporci alle amare verità che il romanzo sociale si incarica di svelare.

Tutto ciò che si agita nel mondo in cambiamento raccontato nei suoi libri, lo si avverte soprattutto al livello della famiglia. Nei problemi neurologici di un padre anziano, nelle scelte politiche e di stile di vita di una coppia di giovani genitori, nei complotti internazionali in cui si va a ficcare un padre tenuto nascosto alla figlia da sua madre...

Oggi, chi aspetta un romanzo di Franzen aspetta soprattutto di farsi coinvolgere nelle vicende di una famiglia: aspetta di rivivere quell’esperienza di lettura dove una famiglia – atavica struttura affettiva – finisce schiacciata e deformata dal peso della storia.

Un romanzo insolito

Sentivo il bisogno di contestualizzare Crossroads all’interno dell’opera narrativa di Franzen per cominciare a ragionare su questo romanzo insolito, che sembra allontanarsi molto dalla fiction politica dei romanzi precedenti.

Franzen ha lasciato l’attualità, ha scritto un libro dove non si allude a Wikileaks, o al cambiamento climatico, o alla gestione della vecchiaia nello stato di polizia, o alla politica: al centro di Crossroads c’è una triade insolita – sesso, droga e cristianesimo.

Invece di vedere una famiglia schiacciata dall’inerzia della Storia, da forze in qualche modo estrinseche, la famiglia creata per questo romanzo, gli Hildebrandt, deve creare da sé gli intrecci turbinanti tipici dell’autore. Sono i primi anni Settanta e gli Hildebrandt stanno correndo verso il fatidico incrocio dove le forze intrinseche del desiderio, dell’egoismo, della vanità porteranno scompiglio nella famiglia, attivate dalla rivoluzione dei costumi: la musica, una nuova idea di religione e di purezza, i paradisi artificiali, la libertà di andare a letto con chi ci pare. Ecco, se la Storia interviene anche in questo romanzo, lo fa prendendo la forma di una vaporosa, onnipresente rivoluzione comportamentale.

Il capofamiglia, Russ, è parte della prima generazione di pastori che si ritrovano conquistati dalla controcultura. Russ vorrebbe essere un prete cool, un prete hip, un prete beat. È entrato a far parte di Crossroads, gruppo di autocoscienza e volontariato nato in seno alla sua chiesa, ma ne è uscito perché incapace di reggere il confronto con il più giovane e carismatico e messianico e quasi charlesmansonesco Rick Ambrose. Uscito Russ, entrano in Crossroads due dei suoi figli: Perry, un giovane molto intelligente con la passione prima per l’erba e poi per la chimica; e la sorella Becky, classica brava ragazza di cui aspettiamo quasi in automatico la perdizione, e che invece si innamora di un devoto cantante folk dal talento tutto da dimostrare.

Il fratello maggiore, Clem, vuole andare in Vietnam per giustizia sociale, perché non ci vadano al suo posto i poveri, ossia chi non studia e non può quindi rinviare la leva. E infine – al netto di un fratellino minore dolcissimo e senza soggettività – c’è Marion, la madre. Il meraviglioso personaggio di Marion è ispirato, l’ha raccontato Franzen nella presentazione italiana del libro, a quelle vite di donne del noir loseangelino anni Quaranta. Il passato di disperazione e abusi la spinge a cercare nella fede del marito una via d’uscita, anzi una via alla normalità. Ma Crossroads, che comincia nel bel mezzo di quella normalità, vuole raccontare un momento della storia americana in cui il tappo salta, e l’ideale di famiglia anni Cinquanta lascia il posto a una visione più dinamica della vita familiare, dove la dipendenza dalla droga di un ragazzino, e gli appetiti sessuali di un reverendo, ma pure della ragazza più popolare della parrocchia, hanno più diritto di cittadinanza nel racconto famigliare di quanto non ne abbia appunto quell’ideale plastificato di felicità. Insomma ci si muove dalla perdizione alla purezza a una più consapevole perdizione. Forse.

La presenza di Dio

Franzen è il raro autore che punta tutto sulla propria intelligenza. Invece di ricoprire i propri libri di affettazioni per segnalare l’appartenenza a una moda letteraria o a un’altra, sviluppa le logiche intrinseche dei suoi libri arrivando a farle pulsare, e a suscitare interesse anche in lettori – come me, per esempio – molto poco interessati ai romanzi “che scorrono”, “che funzionano”, “che si leggono tutti d’un fiato”.

Qui la sua intelligenza balugina sotto alla scelta di usare la religione – la religione militante delle piccole chiese atomizzate d’America – per mischiare le carte del solito confronto tra maggioranza morale e controcultura, tipico del racconto dei Settanta americani. Qui, la presenza di un Dio costantemente evocato o allucinato, di un Dio che in certe preghiere pare di toccare e in altre non pare che una proiezione, scombina i piani e le aspettative, al punto che ci perdiamo nella storia della famiglia Hildebrandt senza capire più in cosa possano consistere la sua trama e il suo scioglimento.

Il romanzo procede a rotta di collo tra una tentazione e l’altra impegnandosi a mostrare in cosa consista la vitalità di una persona, e di un personaggio. Giovani e meno giovani, gli Hildebrandt cercano di godere della vita e al tempo stesso di non far arrabbiare Dio, cercano l’illuminazione e la riconciliazione quanto cercano l’orgasmo e la vertigine. La religione è raccontata ora come un porto sicuro ora come un delirio; la controcultura è raccontata come liberazione e come abisso. In apparenza, è il caro vecchio Grande romanzo americano, nella realtà è caos puro.

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