Il lampo gamma che sfida la nostra comprensione dell’Universo

Quanto possiamo davvero dire di comprendere l’Universo, se fatichiamo a spiegare i suoi eventi più energetici? È una domanda che apre scenari filosofici ed epistemologici, ma che oggi trova nuova linfa grazie a una scoperta che sta facendo tremare le fondamenta dell'astrofisica. Il Big Bang rimane l’evento più energetico mai concepito, ma non è l’unico a mettere alla prova la nostra comprensione. I lampioni di raggi gamma (Grb), tra le esplosioni più potenti dell’Universo, continuano a sorprendere gli scienziati. E il più recente, Grb 250702B, è qualcosa di mai visto prima. Il 2 luglio 2025, il telescopio spaziale Fermi ha rilevato un segnale anomalo: non uno, ma tre lampi gamma distinti provenienti dalla stessa sorgente, distribuiti nell'arco di quasi 24 ore. Un comportamento del tutto inedito per i Grb, che solitamente durano da millisecondi a pochi minuti e non si ripetono mai. «È dalle cento alle mille volte più lungo della maggior parte dei Grb», ha dichiarato Andrew Levan, astronomo della Radboud University e primo autore dello studio pubblicato su The Astrophysical Journal Letters. Essere colpiti da un asteroide? La probabilità è bassa (ma mai zero) Una sorgente extragalattica Inizialmente si pensava che il Grb provenisse dalla Via Lattea, ma osservazioni successive con il Very Large Telescope (Vlt) e il telescopio spaziale Hubble hanno rivelato che la sorgente si trova in una galassia lontana miliardi di anni luce. Questo implica che l’energia rilasciata è ancora più colossale di quanto si pensasse. «Il Vlt ha cambiato radicalmente il paradigma», ha affermato Levan. La natura ripetitiva e prolungata di Grb 250702B ha lasciato perplessi gli scienziati. «I Grb non si ripetono mai, perché l’evento che li generi è catastrofico», ha spiegato Antonio Martin-Carrillo, coautore dello studio e ricercatore presso l’University College di Dublino. L’ipotesi più plausibile? Una collapsar atipica, cioè il collasso di una stella massiccia in un buco nero, oppure un evento di distruzione mareale (Tde), in cui una nana bianca viene smembrata da un buco nero di massa intermedia (Imbh). Quest’ultima ipotesi potrebbe spiegare la periodicità osservata nei tre lampi, un dettaglio che ha sorpreso anche i ricercatori cinesi dell’Einstein Probe, che aveva rilevato attività nei raggi X già il giorno prima. Il comportamento di GRB 250702B non si adatta facilmente ai modelli standard di bagliore residuo. La terza esplosione, ad esempio, si è verificata a un multiplo esatto dell’intervallo tra le prime due, suggerendo una possibile periodicità nel sistema progenitore. Tuttavia, nessuna delle ipotesi attuali riesce a spiegare completamente tutte le caratteristiche osservate. Questa scoperta mette in discussione le nostre teorie sui Grb e sulla morte delle stelle. «Se si tratta di una stella massiccia, è un collasso diverso da qualsiasi cosa abbiamo mai visto prima», ha detto Levan. E se fosse qualcosa di completamente nuovo? Gli autori non escludono che Grb 250702B possa derivare da un tipo di oggetto mai osservato prima. Le osservazioni continuano con strumenti avanzati come il James Webb Space Telescope e lo spettrografo X-shooter del Vlt. L’obiettivo è chiarire la natura del progenitore e, forse, riscrivere parte della nostra comprensione dell'astrofisica. Come ha concluso Martin-Carrillo: «Non sappiamo ancora con certezza cosa abbia prodotto tutto questo, ma con questa ricerca abbiamo fatto un enorme passo avanti nella comprensione di questo oggetto estremamente insolito ed emozionante». Alla ricerca delle origini della vita: il mistero del carbonio primordiale Geoingegneria ai poli Con le emissioni di CO₂ ancora in aumento e le calorie polari che si fondono a ritmi allarmanti, la domanda è inevitabile: possiamo davvero salvare i poli con la geoingegneria? Secondo una nuova e approfondita revisione scientifica, la risposta è un netto “no”. Un team internazionale guidato da Martin Siegert dell’Università di Exeter ha analizzato le cinque principali proposte di geoingegneria per rallentare la perdita di ghiaccio in Groenlandia e Antartide. Il verdetto? Tutte le soluzioni sono impraticabili, inefficaci o entrambe. Tra le proposte più discusse c’è quella di costruire gigantesche “tende sottomarine” per bloccare le correnti calde che fondono le piattaforme di ghiaccio antartiche. Ma come spiega Steven Chown della Monash University, queste strutture dovrebbero essere ancorate a oltre 1 km di profondità, estendersi per decine di chilometri e resistere a condizioni estreme. «È semplicemente troppo pericoloso», afferma Chown, ricordando che metà delle spedizioni in Antartide viene deviata a causa di iceberg e ghiaccio marino. Un’altra proposta prevede di perforare il ghiaccio per pompare via l’acqua liquida che lubrifica il flusso glaciale. Ma Sammie Buzzard della Northumbria University sottolinea che servirebbero migliaia di perforazioni in ghiacci spessi chilometri, un’impresa ben oltre le capacità attuali. «Anche se capissimo dove perforare, rimarrebbero i problemi di scala, costi e alimentazione», afferma. Alcuni hanno suggerito di ricoprire l’Artico con microsfere di vetro per riflettere la luce solare. Ma test di laboratorio hanno rivelato che queste sfere sono tossiche e mantenere la copertura richiederebbe 360 megatonnellate di materiale all’anno, pari alla produzione globale di plastica. Anche l’iniezione di aerosol nella stratosfera, una tecnica già discussa per raffreddare il pianeta, presenta limiti seri ai poli. Gli aerosol si disperdono rapidamente, hanno scarso effetto durante l'inverno polare e potrebbero danneggiare lo strato di ozono. «Potrebbero anche alterare il clima altrove, con conseguenze geopolitiche», avverte Valérie Masson-Delmotte dell’Université Paris-Saclay. Infine, l’idea di fertilizzare l’oceano Meridionale per stimolare la crescita del fitoplancton e catturare più carbonio ha mostrato risultati deludenti. Solo uno dei dodici esperimenti ha portato a un efficace sequestro di carbonio nei sedimenti marini. Inoltre, questa tecnica potrebbe ridurre l’ossigeno negli oceani e aumentare l'emissione di gas serra come metano e protossido di azoto. Secondo Siegert, promuovere soluzioni irrealistiche rischiando di distogliere l’attenzione dalla vera priorità: la decarbonizzazione. Non tutti gli esperti tuttavia, sono d’accordo nel chiudere la porta alla geoingegneria. Shaun Fitzgerald del Center for Climate Repair di Cambridge sostiene che non sappiamo ancora abbastanza per escludere del tutto queste opzioni. Ma il consenso generale è che, almeno per ora, nessuna delle proposte può salvare i poli. La nuova corsa all’oro: i metalli che decideranno il futuro del pianeta Senegal, 9.000 anni fa Nel cuore della valle del Falémé, nell’est del Senegal, un gruppo di archeologi ha riportato alla luce uno dei siti preistorici meglio conservati dell’Africa occidentale. Un laboratorio di lavorazione della pietra risalente a circa 9.000 anni fa sta riscrivendo la storia dei primi abitanti della regione, offrendo una finestra rara e preziosa sull’epoca in cui l’uomo viveva ancora di caccia, raccolta e ingegno. La scoperta è avvenuta nel sito Ravin Blanc X (Rbx), scavato tra il 2020 e il 2023 da un team dell’Università di Ginevra in collaborazione con istituzioni di Senegal, Francia, Germania e Svizzera e solo ora si stanno avendo i risultati di tale ricerca. In un continente dove le condizioni climatiche e geologiche spesso hanno cancellato le tracce del passato, Rbx si distingue per la sua stratificazione intatta e la ricchezza dei reperti. «Trovare un sito della tarda età della pietra con questa qualità di conservazione è straordinaria», ha dichiarato la professoressa Anne Mayor. Al centro del sito, gli archeologi hanno identificato un vero e proprio laboratorio di scheggiatura del quarzo. Qui, gli antichi artigiani producevano microliti, ossia minuscoli strumenti in pietra probabilmente usati come punte di frecce o lance. Sebbene gli strumenti finiti siano stati portati via dai loro creatori, gli studiosi hanno recuperato oltre 1.400 frammenti litici: nuclei, schegge e lamelle. Ricostruendo le sequenze di lavorazione, sono emerse due tecniche distinte: quella delle lame larghe e robuste, adatte a utensili resistenti e quella delle lame sottili e allungate, perfette per armi da caccia precise. «La selezione del materiale e la sofisticazione delle tecniche dimostrano una padronanza artigianale paragonabile a quella di altre culture coeve nel mondo», ha spiegato Charlotte Pruvost, ricercatrice principale. A pochi metri dal laboratorio, è stato scoperto un focolare circolare di 65 cm di diametro, con resti di carbone ancora conservati. Le analisi hanno identificato il legno come Detarium microcarpum, una specie tipica delle savane sudanesi. I risultati della datazione al radiocarbonio confermano l’età del sito: tra 9.397 e 8.988 anni fa. L’analisi dei fitoliti (microscopici resti vegetali) ha rivelato un paesaggio di savana aperta, punteggiata da palme e alberi, in pieno Periodo Umido Africano. Africa, le città divorate da burroni: centinaia di migliaia di persone rischiano la casa Diversità culturale Confronti con altri siti in Senegal e Mali indicano che Rbx apparteneva a una tradizione culturale sahelo-sudanese, caratterizzata da una produzione litica standardizzata. Al contrario, i siti nelle foreste tropicali dell'Africa occidentale mostrano tecniche più improvvisate e meno uniformi. Questo suggerisce che le popolazioni preistoriche si adattavano in modo diverso ai propri ambienti, pur vivendo nello stesso arco temporale. La scoperta di Ravin Blanc X colma un vuoto cruciale nella conoscenza della preistoria africana. «Questo sito ci aiuta a capire come i gruppi umani hanno risposto ai cambiamenti ambientali all'inizio dell'Olocene», ha affermato Eric Huysecom, direttore del progetto Human Population and Paleoenvironment in Africa. «Sfida l’idea superata che l’Africa occidentale fosse marginale nella preistoria. Era invece abitata da comunità vivaci e ingegnose». Finanziato dalla Fondazione Nazionale Svizzera per la Scienza, lo scavo rappresenta un punto di svolta per l'archeologia africana. Una capsula del tempo che ci restituisce il volto dimenticato dei cacciatori-raccoglitori dell'Africa occidentale.