Qualche anno fa Alessandro Gori alias lo Sgargabonzi mi telefona e mi chiede di inserire il mio nome in un suo racconto al posto di quello del giornalista Corradino Mineo. Teme che Mineo non capisca il senso del racconto e la possa prendere male trovandosi a leggerlo; io penso che Mineo invece lo apprezzerebbe tantissimo, ma capisco i timori di Gori.

Si tratta di un racconto che conosco, l’ho ascoltato in una lettura dal vivo, l’ho trovato molto comico, verrà pubblicato poi nella raccolta Jocelyn uccide ancora, Minimum fax, e parla di un incontro sessuale tra il protagonista che parla in prima persona e una disabile grave senza nome che viene sedotta (circuita) e spietatamente abbandonata. Il personaggio a cui Gori vuole dare il mio nome insomma è un uomo squallidissimo, volgare e manipolatore. Ci penso e accetto, quel racconto oggi s’intitola Le avventure di Christian Raimo e continua a essere ancora spassoso e perturbante persino per me che l’ho letto dieci volte.

Perché ho detto di sì? Perché penso che il lavoro artistico – e quindi morale – che fa Gori vada non solo capito ma anche incoraggiato, perché ambizioso, raffinato e lodevole proprio per la funzione che spesso diamo all’arte: farci riflettere sulla morale dei nostri tempi.

La causa

Mi è tornato in mente quest’episodio quando ho saputo che Alessandro Gori alias lo Sgargabonzi è stato citato in giudizio per diffamazione da Piera Maggio, la madre di Denise Pipitone, la piccola bambina di Mazara del Vallo scomparsa nel 2012.

Gori nel 2014 ha scritto su Facebook un paio di post surreali in cui la citava. Ha annunciato un suo spettacolo con un post che diceva: «Curiosità pruriginose su Denise Pipitone con diapositiva e Simmenthal». E in un altro ha scritto: «La scomparsa di Denise Pipitone in Polinesia è considerata un ballo popolare, una specie di Calipso».

Piera Maggio – la cui vicenda è una delle più drammatiche della storia italiana contemporanea – si è sentita offesa e ha chiamato in causa Gori. Questa storia sarebbe assurda, se non fosse ovviamente spiacevole, ma nasce da un grande fraintendimento, risolto il quale – sono convinto – Piera Maggio e Alessandro Gori potrebbero trovarsi a condividere anche un senso di vicinanza.

Questo breve pezzo è quindi un tentativo di convincere la signora Maggio e i giudici che dovranno deliberare nel merito non solo dell’innocenza di Gori nella causa di diffamazione, ma del suo talento artistico e anche della sua natura empatica: raramente ho conosciuto una persona così attenta ai sentimenti altrui – è quindi una piccola perorazione per difendere non solo i diritti ma anche la reputazione di un artista e di un uomo.

L’assurda falsità

La faccio a partire da una considerazione generale. È evidente a tutti che nell’era dei social, a ognuno di noi non solo capiti un quarto d’ora di notorietà come profetizzava Andy Warhol, ma si occupi per buona parte del tempo della sua vita della sua identità privata e della sua identità pubblica, anche se non è una persona nota. C’è chi lo sceglie e chi viene suo malgrado travolto.

Queste identità pubbliche finiscono per riferirsi nell’immaginario a delle figure astratte, tanto da eliminare praticamente del tutto un rapporto reale con la persona in carne e ossa. Sono identità bidimensionali. Vale – per fare degli esempi – per una Chiara Ferragni o per un Valentino Rossi, ma anche per me, che non sono certo una star. Ogni identità pubblica è connotata secondo certe caratteristiche che la persona plasma e da altre che gli sono attribuite dalla società senza che l’interessato possa farci molto: nel mio caso, più o meno vengo considerato un intellettuale impegnato che si occupa di cause perse.

Per questo affibbiare il mio nome, “Christian Raimo”, a un personaggio volgare, squallido, senza morale, come nel racconto di Gori, fa ridere e crea un senso di perturbamento: un intellettuale engagé che si ritrova a rimorchiare brutalmente una disabile e parla come un ubriacone senza scrupoli. Lo stesso accadeva anche con “Corradino Mineo”, che è un nome che ci riporta a inchieste e giornalismo fatto sempre dalla parte giusta.

Lo stesso accadrebbe anche in un racconto, per dire, in cui Chiara Ferragni decidesse di fare la squatter in un’occupazione anarchica o di rifondare le Brigate Rosse per la lotta proletaria, o in un altro in cui Valentino Rossi entrasse in un seminario lefevriano e cominciasse a esercitare da esorcista. L’effetto sarebbe probabilmente comico (su questo chiaramente non possiamo giurarci; ognuno ride secondo una propria sensibilità), ma di sicuro riconosceremmo la falsità del racconto, l’assurda falsità del racconto. E di questo non ci lamenteremmo, anzi ci troveremmo quello spirito di complicità che ci fa sentire un sentimento comune del mondo proprio quando lo reimmaginiamo alla rovescia, proprio per ricordare che invece siamo umani.

Un bagnoschiuma assurdo

Questa tecnica artistica non è ovviamente nuova: ma è stata teorizzata in modo analitico e praticata in migliaia di modi da tutta la letteratura comica – pensiamo a come Aristofane fa di Socrate un impostore scureggione nelle Nuvole – e con particolare perizia dalla letteratura postmoderna. In un mondo totalmente mercificato, tutti i nomi sono merci, e la forza morale dell’arte è anche mostrare quanto sia terribile questa mercificazione. Un esempio italiano, tra i molti che spaziano da Thomas Pynchon a David Foster Wallace a George Saunders, potrebbe essere Woobinda di Aldo Nove, piccolo capolavoro letterario pubblicato per la prima volta nel 1996 e ormai entrato nel canone della letteratura italiana contemporanea. In un racconto intitolato Vermicino, Nove scrive a un certo punto così: “Penso che se Alfredino moriva ora aveva la pubblicità come problema, più per i telespettatori che per lui direttamente, impegnato a sopravvivere un attimino in più”.

Nel primo celeberrimo racconto della raccolta l’incipit è questo: “Ho ammazzato i miei genitori perché usavano un bagnoschiuma assurdo, Pure & Vegetal. Mia madre diceva che quel bagnoschiuma idrata la pelle ma io uso Vidal e voglio che in casa tutti usino Vidal”.

Mostrare il guasto

Le voci che Nove mette in scena – capita così spesso nella letteratura postmoderna – sono mimetiche con quelle di personaggi alienati, goffi, e spaesati di fronte a un mondo in cui la televisione sembra aver colonizzato anche la psiche. La loro intelligenza emotiva è guasta, e non riescono più a distinguere una strage o una tragedia da una pubblicità. Come la scomparsa di Denise Pipitone e la Simmenthal. Chiaramente per George Saunders, per David Foster Wallace, per Aldo Nove, per Alessandro Gori, mettere in scena questi personaggi non vuol dire aderire alla loro prospettiva, ma esattamente il contrario. È mostrare questo guasto. 

Ma c’è di più, e questa è una novità. La sfida artistica di Alessandro Gori è stata quella di costruire un personaggio, lo Sgargabonzi, una incredibile creatura letteraria, la cui attività spazia dai libri alla tv (i programmi ideati da Giovanni Benincasa, Battute e Una pezza di Lundini), ai giornali (Rollingstone e Linus, per esempio) ai social (dove le sue pagine sono una delle operazioni artistiche più coraggiose che si possano trovare in Italia) resta artisticamente coerente. Per fare un altro esempio: è come se Sacha Baron Cohen avesse deciso di incarnare sempre il personaggio di Borat. Ecco, se vogliamo comprendere che tipo di comicità è quella di Sgargabonzi, Borat è un buon riferimento. Anche se c’è da dirlo, qualche anno fa, Gori scrisse un pezzo serio proprio sul caso di Tiziana Cantone, esplicitando la sua poetica.

Invenzioni letterarie

Certo, non possiamo chiedere alla signora Pipitone di essere un’esperta di comico o di letteratura postmoderna o di riconoscere quelli che nell’analisi del testo si chiamano layers, ma possiamo chiedere ai giudici di fidarsi degli artisti e dei critici che tutti i giorni riflettono su come creare e come analizzare le opere che siano interessanti per questi tempi complessi. In questo caso colleghi come Stefano Rapone e Valerio Lundini si sono espressi riconoscendo «il dolore di una madre che ha tutto il diritto di sentirsi mortificata nel vedere il nome della figlia scomparsa accostato a un contesto umoristico», ma anche chiedendo una tutela rispetto alla possibilità di non venire condannati per diffamazione per quelle che sono manifestamente delle battute.

Critici letterari, tra i più autorevoli in Italia come Francesco Pacifico, Gianluigi Simonetti o Claudio Giunta, hanno più volte riconosciuto il valore assoluto dei testi e delle performance di Gori/Sgargabonzi e hanno fornito molte chiavi per capire e godere a pieno delle sue invenzioni letterarie.

Io posso aggiungere, per mia esperienza personale, che se può essere chiaro come tutto il suo genio artistico sia rivolto anche a svelare i facili e volgari automatismi della spettacolarizzazione e del cinismo della pervasiva ironia dei social, della tv e dei media; non è conosciuto il reale interesse di Gori per la sofferenza che possono provare le persone coinvolte nei recenti casi di tragica cronaca.

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