È uno dei cult segreti dell’estate Wham! il documentario di Netflix sulla breve storia del duo inglese che si affacciò poco più di quarant’anni fa sulle scene popolando camerette e diari scolastici di poster colorati e sorrisi bianchissimi.

Esordirono con un rap in bello stile black, improvvisato nelle esibizioni in discoteca, che proclamava con ironia: «Non ho un lavoro/ e allora mi diverto/ coi ragazzi che ho incontrato in fila». In fila a prendere il sussidio, sottointeso.

Questa coincidenza che unisce l’epoca del thatcherismo ai nostri calcoli meschini e agli anatemi sul reddito di cittadinanza, teniamola presente: «Non lasciare che i tempi duri ti intralcino il cammino/ la gang dei sussidi prima o poi pagherà!», cantava George Michael di certo con un briciolo di insubordinazione emotiva nei confronti dello spietato neoliberismo all’orizzonte.

Effetto nostalgia

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Figlio di un comunista greco, sempre schierato a sinistra anche nei momenti più “teen” e disimpegnati della carriera, nel videoclip della canzone (febbraio 1983) attraversava le strade di Londra con addosso il giubbino nero e la t-shirt bianca dei bad boys americani (da Brando a John Travolta) per stanare il suo socio Andy Ridgeley da casa e, sotto gli occhi dei genitori incazzati, andare a cantare assieme sotto i riflettori di un programma tv, probabilmente il mitico Top of the Pops.

Il bello è che era tutto vero. Fu la performance strepitosa a Top of the Pops per il secondo singolo Young Guns (Go for it) – erano stati ripescati perché qualcun altro aveva dato forfait – a riportare in classifica il precedente Wham Rap e a salvare una carriera che stentava a decollare.

Young Guns usa di nuovo il rap e il funky, ha il suono elegante della new wave inglese dell’epoca, e la presenza del bassista americano Deon Estus che aveva suonato con Marvin Gaye.

In una sceneggiatura da micromusical il protagonista invita il suo amico appena fidanzato a non legarsi troppo a lei se non vuol rischiare di morire tra il matrimonio e i pannolini. Effetto nostalgia garantito a chi ha l’età per ricordare qualcosa: da Club Tropicana, una vacanza nell’Utopia «dove i drink non si pagano/ c’è sole e divertimento, tutto per tutti», a Wake me up before you go go «non lasciarmi appeso come uno yo-yo», altro musical tascabile finto anni Cinquanta.

George e io

I materiali a disposizione del regista Chris Smith per raccontare una carriera durata non più di quattro anni ma davvero globale nella sua popolarità, America e Cina comprese, hanno il colore allegro e rumoroso del vecchio nastro magnetico.

I videoclip, le interviste, gli speciali tv, le riprese del Live Aid (che uniscono questo lavoro al gran finale del film sui Queen Bohemian Rhapsody). Lindsey Anderson – uno dei grandi registi del free cinema - girò il viaggio e i concerti degli Wham in Cina, in un’epoca in cui la cosa fece davvero notizia.

Infine, una lunga ricerca tra inediti, riprese scartate, video personali e altri memorabilia, è stata compiuta con l’aiuto di Andrew Ridgeley, che si era eclissato dalla mondo della musica poco dopo l’ultimo concerto degli Wham! a Londra nel 1986, e solo di recente ha rimesso assieme i ricordi nella biografia George e io (2019).

Ascoltiamo lungo tutto il documentario la sua voce registrata di recente in un ideale dialogo fuoricampo col suo amico ex compagno delle medie scomparso nel 2016, il cui testo invece è ricostruito a partire da vecchie interviste.

Storia di un’amicizia

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Dello stile dei documentari Netflix, Chris Smith è una delle firme riconosciute. È stato autore di Tiger King sull’eccentrico allevatore Joe Exotic, di Fyre sul megaflop di un festival musicale alle Bahamas, e pure di Jim and Andy, folle ritratto parallelo dei comici Jim Carrey e Andy Kaufmann.

Il documentario come sofisticato esercizio di storytelling: punto di vista forte e riconoscibile, arco narrativo sufficiente a sé stesso, fuggire come la peste le opinioni di critici e storici, ricontestualizzare i ricordi del pubblico, rendere nuova una storia che ci pare di conoscere bene.

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«Che cosa provi a vedere il successo del tuo amico?», chiedono sempre a Ridgeley nelle interviste tv quando si capisce (ci vuol poco) che George Michael è lanciato verso una carriera solista di enorme successo e di lì al poco scioglierà il gruppo.

La domanda ha un sottofondo di imbarazzo. Diventa il trucco per svelare una grande storia di amicizia: alle scuole medie lo sgamato Andrew aveva preso sotto la sua protezione il timido George, figli entrambi di immigrati nella grande periferia londinese, ballavano black music in discoteca e suonavano lo ska che allora andava per la maggiore.

Per George, Andrew era il modello da seguire. Durante l’avventura degli Wham! le parti quasi si invertono: Micheal è il frontman che si occupa di scrivere e produrre tutte le canzoni, Ridgeley accetta con tranquillo fatalismo il suo ruolo di comprimario. E non solo quello.

Careless Whisper

Sarà la prima persona, assieme alla fidanzata Shirlie che è anche una delle coriste del gruppo, a ricevere da George la confessione della sua omo/bisessualità e a mantenere il segreto come gesto di protezione nei confronti della fragilità del suo amico più caro.

Altro filo narrativo del documentario: il closet di George Michael, nato dal comprensibile timore nei confronti della reazione di suo padre, si rivelò un peso sempre più ingombrante nella sua crescita personale e artistica, tanto più in quegli anni dove tutto cambiava.

Di Young Guns e del suo contrapporre maschi e femmine, amicizia e amore, abbiamo detto. Non c’è una lettura univoca dei versi di Careless Whisper, forse la ballad più nota scritta da George Michael e Andrew Ridgeley, in cui ci si pente ancora di aver tradito amanti e amici, già pronta in un nastro registrato del 1981 e, come apprendiamo dal documentario, passata attraverso un arrangiamento di Jerry Wexler, già produttore di Aretha Franklin e Otis Redding, che l’autore 21enne ebbe la forza erculea di rifiutare perché non ne era soddisfatto.

Di Freedom, nei saggi di gender studies si discute talvolta il significato nascosto del verso «Come un prigioniero che ha la sua chiave/ ma non può scappare se tu non mi ami». Non è soltanto il vecchio trucco dell’indeterminatezza di genere dei pronomi inglesi: tutte le canzoni, dalle arie di melodramma, al vaudeville, alle grandi ballad pop, conservano almeno un’eco del linguaggio segreto della comunità gay.

Una nuova icona

Gli Wham! in Giappone, il 5 dicembre 1985. A sinistra George Michael, a destra Andrew Ridgeley (The Yomiuri Shimbun via Ap)

La grande novità del pop anni Ottanta, quello inglese classico, fu il passo avanti del coming out: Boy George, Jimmy Sommerville, Frankie Goes to Hollywood, i Pet Shop Boys, la più sfumata queerness di Morrissey e di certe band indipendenti, fino alla nuvola nerissima dell’Aids del decennio successivo.

Nel suo closet Michael appare spiazzato di fronte a questo, benché sia del tutto evidente il suo uso consapevole di codici e stili riconoscibili dalla comunità. In questa dialettica tra coming out e closet c’è il senso di un’epoca.

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Che interpreti un teen-idol con lo smanicato di pelle nera aperto sul petto nudo, preso di peso da una recita scolastica di Grease; che si presenti in bianco Versace, da sofisticato autore blue-eyed soul, capace di duettare alla pari con  Aretha Franklin; che giochi il gioco sexy del "clone", la parodia esasperata del maschile, o al contrario esasperi i tratti femminili e androgini, George Michael è tra quelli che reinventano l’immagine del maschio e la rispediscono ai quattro angoli del pianeta.

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Il documentario di Chris Smith mostra la cerimonia che lo premia miglior autore di canzoni dell’anno 1985 con l’Ivor Novello Award ricevuto dalle mani di Elton John. Commozione fino alle lacrime.

E immagine significativa: anche l’omosessualità di Elton John negli anni Settanta-Ottanta, pure quella dello stesso Novello, attore e autore negli anni Venti, erano state un segreto, sia pure "noto a tutti" come si dice.

Nell’esibizione al Live Aid, di fronte a uno stadio intero e a un miliardo di spettatori alla tv, Elton John aveva scelto proprio George Michael per cantare la sua Don’t let the sun goes down on me, passando nelle sue mani lo scomodo scettro dell’ambiguità che era stato suo e di David Bowie.

Ron Wolfson / MediaPunch/MediaPunch/IPx

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