Dopo tre mesi posso camminare anche se con incertezze e parlo un poco meglio. La scrittura e la lettura sono ancora lontane. Mi dicono che è ora di tornare a casa. Non mi pare vero. Ritroverò la mia vita, il mio letto, gli amici. Dopo tanto tempo in una clinica c’è un po’ di famiglia anche qui, ma è ora di tornare alla vita di sempre e soprattutto a Roma c’è Zeno.

Scegliamo l’aereo e il viaggio mi sembra infinito. La carrozzina fino al gate, l’imbarco, la tratta e poi di nuovo la carrozzina a Fiumicino, la ricerca del taxi e solo alla fine la porta di casa. Ho il cuore che mi batte in gola. Il mio cane che fa le feste, l’abbraccio di mio figlio, il camino acceso. Sono a casa, salvo.

Sentirsi solo

Eppure la gioia immensa di tornare alla vita si sgretola molto presto. Non ricordo come si accende il televisore, la password del mio computer, le scale per andare al piano di sopra sembrano interminabili, nemiche. Se in clinica le notti non passavano mai, qui non passa neanche un minuto.

Non posso andare al giornale perché non posso lavorare, gli amici sembrano molto occupati dalle loro vite, i nuovi medici sono degli sconosciuti. Giro per la casa e non so cosa fare. Non posso scrivere, non posso leggere, non cammino abbastanza per fare delle passeggiate. La mia vita non ha più alcun senso.

«Dobbiamo ricominciare da qui», dice Paola. «Ce la faremo». Mi sento terribilmente solo. E so che è così anche per lei, malgrado sorrida sempre con la fiducia nel futuro. Sonya e Riccardo vengono a trovarci, portano dei dolcetti, il cognac che mi piace, ci provano, ma è così difficile. È tutto cambiato adesso. Tutto quello che è stato non c’è più e io vorrei chiudere gli occhi e morire.

Tentativi di dialogo

Le prime settimane sono un inferno. Paola è così stanca che ho paura che si ammali anche lei. Io mi alzo alle quattro del mattino e aspetto solo il momento per tornare a letto la sera. Pensavo fosse finita. Pensavo che tornando a casa tutto sarebbe andato meglio. E invece tutto è crollato.

Capisco che ci vorranno anni per tornare forse ad avere una vita normale e sarò sempre più vecchio e i miglioramenti sono così lenti. Non riesco a parlare con mio figlio. Già non è facile per un adolescente, figuriamoci con un papà afasico, eppure ci provo con le parole che escono alla rinfusa.

«Sei, stare, coco?» (Come stai?)
Zeno sorride: «Cosa?».
«Si stai cuodo?» ci riprovo.
Zeno mi guarda: «Hai sete?».

«No». Lo indico: «Tu, bebe?».
«Se sto bene?».
«Sì!».
«Sì, io sto bene. Tu?». 

Fatti di parole

Guardo gli altri mentre cammino per strada. Una mamma con un bambino, due anziani, dei ragazzotti usciti da scuola. Parlano. Come se fosse la cosa più normale del mondo. Nella mia testa tutto è perfetto, so bene cosa voglio dire ma appena apro bocca, tutto si confonde.

Penso “scrivere” e mi esce “nuotare”, quando non sono che una serie di sillabe aggrovigliate senza senso. Pensare che scrivevo un editoriale in mezz’ora. E senza nemmeno doverlo rileggere. Ora fatico a scrivere il mio nome. Sono disperato dentro la mia rabbia. Siamo fatti di parole. E io ora le ho perse.

Così come ho perso molti amici, che forse amici non erano. Il mio telefono squillava sempre. Ora lo posso anche buttare. È come se non ritrovassi la mia identità. La parola che non esce, che inciampa senza tregua, non lascia via d’uscita alle emozioni.

Mentre parli, elabori quello che provi. Se non puoi, ti scoppia dentro.

Un’idea geniale

È quasi Natale e per fortuna abbiamo qualcosa da fare, i regali. Scopo della mia vita? Fare shopping. Chi l’avrebbe mai detto. E poi andremo ad Angera sul Lago Maggiore, la grande casa dei miei suoceri, dove ci aspettano i parenti al completo per festeggiare.

È stato così devastante trovarmi in famiglia e dover fare i conti con i miei deficit che ho avuto paura di commettere qualche atto insensato. Paola continua a sorridere, non so dove trovi la forza e Zeno ora mi sembra lontano.

I giorni di Natale sono stati di una tristezza devastante. Sdraiato sul divano, con la luce spenta a sperare che tutto finisca presto. La mattina di Santo Stefano però Paola ha un’idea geniale. Mi carica in macchina e viaggiando sul lungolago comincia a gridare: «Vaffanculooooo!!». Io la guardo e non capisco. E lei: «Forza, grida con me. Vaffanculooooo!!».

Non so perché, ma l’afasia non vale per le parolacce. È così. Vengono direttamente dalla pancia, non hanno bisogno dell’encefalo. Prima timidamente e poi con gran rabbia mi metto a urlare anch’io. E poi giù a ridere e a urlare ancora. Non rido da tanto tempo. Per qualche secondo sono felice. «Vaffanculooooo!!». 

Da quello che ho

Torniamo a Roma e capiamo che dobbiamo organizzarci per la nuova vita. E piano piano costruiamo un nuovo nucleo protettivo. Troviamo un fantastico autista, Emanuele, che mi dà una mano qualche ora al giorno per portarmi alle varie terapie.

Sa quando voglio parlare e quando voglio stare zitto. Non so come fa, ma lo sa. Una nuova logopedista, Rita, che oggi, posso dirlo, mi ha riportato alla vita. Un’amica psicanalista, Manuela, che ha tenuto duro con me nei momenti più bui, quando altri non ce l’hanno fatta. Viene a trovarmi non perché sono malato ma perché si diverte ancora con me.

E Arabella, amica del cuore, che per mesi ha vissuto con noi e si alzava alle 4 per dare una mano, visto che io non dormivo mai. Mi portava in giro per Roma prima dell’alba, aspettando che aprisse il primo bar per fare colazione e la prima edicola per leggermi i quotidiani.

E gli aperitivi con Norma, toscana, che parla un italiano così bello che mi sembra di capire tutto e poi Bruno e Franca, gli amici del poker. Si deve ricominciare? Bene. Ricominciamo da dove non servono le parole e, strizzando un po’ l’occhio, diciamo che a carte gioco ancora benino. Tralasciamo quello che ho perso e ricominciamo da quello che ho.

Nicola Piovani

Nicola Piovani abita a due passi da casa mia. Possiamo permetterci la consuetudine di un caffè insieme prima di tornare ai nostri impegni quotidiani. Anche solo pochi minuti. Non c’è bisogno di programmare o di trovarsi inghiottiti nel traffico di Roma, basta una telefonata, uscire di casa e fare due isolati a piedi.

Gli piace parlare di politica con me, mi chiede pareri, si informa, dice la sua, mi provoca. Io cerco di rispondere in fretta per passare a quello che mi interessa davvero, la musica. Non è facile, non è uno di quelli che parlano del proprio lavoro. Qualche volta riesco ad aprire un varco ed ecco apparire un mondo incantato.

Nicola è un grande affabulatore. Una sera, nella sua casa di Corchiano, nella campagna viterbese, mentre ci serviva la sua sublime amatriciana, qualcuno gli ha chiesto di raccontare la trama di alcune opere. È stato come se non le avessi mai capite. Nicola vede nelle pieghe del racconto.

Ti tiene appiccicato alle sue parole e ti scordi di conoscere il finale. E nei momenti più drammatici della storia sa piazzare un’imprevista battuta e tu scoppi a ridere. Sono in piena suspense e rido? Capita anche con il suo lavoro, si ride e si piange sulle stesse note, insomma si vive. Non a caso è un grande appassionato di Shakespeare.

Libertà

Quando mi sono ammalato, è venuto a trovarmi il giorno stesso in cui sono tornato dalla clinica di Milano. Ci siamo commossi rivivendo insieme quell’incubo e alla fine mi ha sorriso e mi ha detto: «Be’, tutto qui?».

È stato per un attimo un sollievo impagabile. Ho avuto paura di perderlo. Si sarebbe potuto trasferire in California dopo l’Oscar, diventare il musicista della corte hollywoodiana in una villa con piscina a Malibu. È rimasto a Roma, nello stesso quartiere, a fare esattamente quello che faceva prima.

Lo vedi al mercato a comprare la frutta, la lettiera per il gatto, a fare due chiacchiere in piedi sul marciapiede con Nanni Moretti o con l’amico ristoratore a discutere sugli ultimi acquisti della Roma. È un uomo felice. Mi aggrappo di nuovo ai ricordi, faccio i compiti, ripasso momenti della mia esistenza e lascio che il cervello sia libero, che corra per conto suo.


Tratto da Azzurro, stralci di vita, il libro postumo di Curzio Maltese. In libreria per Feltrinelli


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