Al bar dello sport è tornato il tennis, come non si sentiva dai tempi delle scorribande di Adriano Panatta in Costa Smeralda, tra Parigi e Wimbledon. E le immancabili considerazioni strategiche dell’odontotecnico che non distingue la volée da un soufflé («Uno che va in barca invece di allenarsi sull’erba, poi come fa a vincere?») e la precisazione tecnica, in rima, del geometra sulla indimenticata sconfitta dei quarti nel 1979 («Se fai serata con la Bertè, poi perdi contro Pat Du Pré»).

È il portato della ri-nazionalizzazione della racchetta, disciplina seguita da un manipolo di iniziati e praticanti talmente a lungo – l’ultimo top 10 italiano prima di Fabio Fognini, nel 2019, era stato Corrado Barazzutti, quaranta anni e sei mesi prima – da essere tornata preda di un pubblico in massima parte analfabetizzato e senza alcun anticorpo che protegga dalla dabbenaggine.

Tanto che pure la stampa ci si è messa, talora assoldando notisti politici e di costume pronti a lanciarsi in commenti tranchant su uno sport dal regolamento non intuitivo e spesso involuto – partorendo topiche imbarazzanti su lucky loser italiani – o indulgendo in dettagli pruriginosi su scollature delle fidanzate, automobili e ristoranti, in una penosa sequela della linea editoriale dei tabloid da isola del supermercato.

Divieti

Il tennis è un animale strano. Somiglia alla boxe ma è vietato il contatto, è una battaglia ma la lista dei niet è lunga così: non si disturba l’avversario, non si dicono parolacce, non si tira per terra la racchetta – la multa, a Wimbledon, è particolarmente salata giacché i giardinieri stimano generosamente il danno alla unica superficie vivente su cui si gioca.

Su un punto fortunato, non si esulta ma si chiede scusa. Le macchinette piazzate a bordocampo stupiscono il pubblico segnalando velocità delle palle di servizio stupefacenti: centotrenta, centoquaranta miglia all’ora - in metrica, duecentoventi chilometri e fischia.

Eppure, non si vince con lo sprint ma con la mentalità del maratoneta: soprattutto quando il match si disputa in uno Slam, al meglio dei cinque set. È anche una corsa a ostacoli perché sì, è arrivato qualche tetto sui grandi campi a normalizzare il susseguirsi delle partite; ma pioggia, coprifuoco – come a Londra, per non disturbare il vicinato nottetempo – e lungaggini delle sfide costringono ad aspettare, a scaldarsi, a mangiare e riposarsi con cambi repentini di programma.

E si vince anche sapendosi gestire nell’attesa, grande tradizione culturale british come il soave bianco dei vestiti e le pessime fragole insapori, annegate in una cremina liquida e vendute con rincari da antitrust nel perimetro di Church Road.

Contro Berrettini

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Per nostra grazia, a frequentare gli slam non da turisti ci si son messi i giocatori italiani. Matteo Berrettini, già finalista nel 2021 e braccato dalla sfiga sotto forma di nuovi infortuni, Covid e ricadute di vecchie bue, proprio a Wimbledon ha ritrovato la carta d’identità del campione e si è regalato una settimana da (semi) Dio, infilando il Sonego contro cui aveva perso un match deprimente giorni prima, l’australiano De Minaur e soprattutto Alex Zverev.

Prima di cedere il passo, in un degnissimo ottavo di finale, al fenomenico numero uno mondiale Carlos Alcaraz. Se i prati inglesi hanno contribuito a sistemare (ma per quanto tempo?) la mordacchia ai tifanti da divano e armati di connessione web, i primi mesi del 2023 del giocatore romano si erano distinti per una imbarazzante penuria di risultati, a partire da quella dolorosissima sconfitta a Melbourne contro Sir Murray, il cui match point a sfavore è tuttora candidato agli Oscar degli sciupii.

A fungere da innesco per la inquisizione bar-social, la notizia dell’interruzione della relazione di Berrettini con la collega Tomljanovic e la scelta di una nuova compagna di cammino, la showgirl Melissa Satta. Una velina già sposata con un calciatore: non si aspettava altro, per esercitarsi nel tiro al campione fiaccato dalle distrazioni. Un florilegio di batuttacce e lezioni spicce di morale sessual-sportiva costruite sull’assunto che, prima di conoscere la signora, il Matteo appartenesse alla schiera degli asceti. Salvo doversi rimangiare la parola, almeno fino alla prossima sconfitta.

Ma poi non vince

Eliminato Berrettini, la carrucola del cannone si è spostata nel lato di tabellone di Jannik Sinner. Il predestinato dal destino in costruzione è arrivato a Wimbledon con le spalle appesantite dal cicaleccio sulle delusioni fornite da un finora quasi-vincente, quantomeno ai massimi livelli.

Sinner, secondo questa lettura partorita tra un cappuccino e una sfogliata con l’indice alle storie di Instagram, è il wannabe che promette, illude e, alla fine, non mantiene. È colui che arriva a match point agli Us Open contro Alcaraz, entusiasma, infiamma ma la partita – e il torneo – li vince poi quell’altro.

Che incassa primo e secondo set contro il mostro Djokovic a Wimbledon 2022 ma poi, per la disperazione nostrana, si ferma lì. Che recupera due set a Tsitsipas in Australia, sembra pronto a sorpassarlo e volare nei quarti e invece no: proprio lì, si spegne. Che ottiene due finali nei Master 1000 ma le perde.

Che pare dominare a Montecarlo contro quell’altro fenomeno sfacciato di Holger Rune ma poi, tra una sceneggiata del danese e un clima cangiante, si fa intortare. E a Parigi? Per carità: come si fa – accusa al bancone il progettista di mezzi agricoli – a perdere contro quel signor nessuno di Altmaier?

Verso la semifinale

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Detto che la risposta la potrebbe fornire Berrettini, pure lui vittima in passato dello stesso avversario nel medesimo torneo, è fuor di dubbio che nel cammino verso la vetta degli eletti – un titolo Slam che al maschile l’Italia non festeggia dal 1976 – Sinner sia incespicato più volte.

Tanto da legittimare, almeno in parte, il fuoco di fila di accuse col senno di poi: la colpa è di Riccardo Piatti, il coach comasco che ha forgiato Sinner e un altro battaglione di campioni, Jannik doveva abbandonarlo prima.

Salvo scoprire che il tennis non è un Minecraft, non si possono comprare al market i pezzi mancanti (servizio più robusto, stabilità nel dritto, rovescio slice, tecnica e posizione a rete) e reclamare il licenziamento anche del team tecnico con cui Jannik lavora da un anno e mezzo, cioè i valenti Simone Vagnozzi e Darren Cahill.

Il giocatore italiano è stato chiamato (sic) a rispondere del borsone di Gucci sfoggiato in campo a Wimbledon, chiaro segno di imborghesimento che sarebbe stato usato contro di lui se mai si fosse fermato nella prima settimana del torneo.

Invece, toh: Sinner ha vinto cinque partite filate e si è assicurato la prima semifinale in uno Slam («Ho capito ma ha trovato un tabellone spianato, neanche una testa di serie e quello sconosciuto di Safiullin nei quarti di finale», incalza frattanto il gommista in area di servizio).

Cercando l’impresa

Venerdì gli tocca in sorte il Moulinex del tennis, il tritatutto, Novak Djokovic. Colui che si candidò, ragazzino, a scalfire l’aura di inafferrabilità e totalità del dualismo Federer-Nadal, tra stupore e sghignazzamenti generali. Salvo, poi, riuscire a sopravanzare entrambi – non, tuttavia, nel cuore di tanti fan, anche per una certa tendenza a dividere e provocare, nonché a raccogliere il plauso di frange di no-meat-no-sugar-no-gluten fino ai no-vax, ai no-med e, tra questi, una quota non trascurabile di no-brain.

I quotisti, coloro che decidono i pagamenti delle scommesse sulle partite e, gestendo flussi di denaro, ne capiscono più di tanti sedicenti esperti, indicano Djokovic quale deciso favorito (1,15). Nella consapevolezza che Sinner (dato a 5) dovrà pestare su ogni palla, che poi è la maniera in cui sa interpretare il tennis, più a lungo e ancor meglio – a partire dal servizio – di quanto gli sia sufficiente in ogni altra sfida che non gli presentino Alcaraz o Rune.

Dovesse farcela, sarebbe il primo atleta capace di infliggere una sconfitta al serbo in dieci anni di match sul centrale di Wimbledon e fermerebbe la sua corsa all’impresa che manca dal 1969 nel tennis maschile, il Grand Slam. In caso contrario, a dispetto del parere dell’avvocato al secondo piano, non sarebbe materia da inchiesta penale.

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