Non c’è niente da fare, non riesco a considerare Pasolini semplicemente un oggetto di studio: per questo ho scelto il titolo Quindici riprese per la raccolta dei miei saggi su di lui. È legato al pugilato, che nei suoi anni eroici regolava in quindici round gli incontri per i campionati europei o mondiali. Quello con lui, per me, è sempre stato un combattimento».

Non essendo un esperto, per prepararmi a questa recensione ai saggi pasoliniani di Siti in queste settimane ho riletto e anche letto per la prima volta molto Pasolini ed è stato tempo speso benissimo. Mi pare sia stato Martin Amis a osservare che quando diciamo che un certo scrittore ci piace o non ci piace stiamo parlando per metonimia, la parte per il tutto, perché di quello scrittore avremo letto, ad andar bene, un terzo, un quarto dell’opera, di solito anche meno. Nel caso di Pasolini, il titolare di dieci tomi dei Meridiani, l’uomo che per trentacinque anni ha scritto – così calcola Siti – una media di due pagine al giorno, il numeratore diminuisce in proporzione: quanto Pasolini si è letto, nel corso di una normale vita di lettori? Un quinto? Un decimo? E senza contare i film, le lettere, le reazioni innumerevoli degli altri scrittori. Impossibile mettersi in pari.

Così ho proceduto per campioni in parallelo, sui vari decenni. Anni Quaranta: il «romanzetto adolescenziale» Atti impuri (così Arbasino) mi pare contenga, come già altri hanno detto, alcune delle migliori pagine in prosa che Pasolini abbia scritto. Dà da pensare – o almeno dà da pensare al fan di Larkin – il fatto che anche Philip Larkin, nato nel 1922 come Pasolini, poco dopo i vent’anni abbia scritto un romanzo autobiografico, Jill, in cui si racconta l’iniziazione all’amore di un adolescente ultrasensibile entro un ambiente ostile: salvo che l’ambiente è Oxford, non il Friuli rurale; e salvo che in Jill il senso di colpa è generato non dall’attrazione per i ragazzi ma per un’adolescente quasi-bambina.

Anni Cinquanta: forse Ragazzi di vita si legge ancora a scuola, ma non credo che da adolescenti si sia pronti ad apprezzare la perfezione di certe pagine del libro, di certi paesaggi brulicanti di vita (il bagno nel Tevere, all’inizio, con l’attrazione e la paura nei confronti dei ragazzi più grandi; ma Pasolini non era solo un grande pittore d’ambienti, come si dice sempre: anche i dialoghi sono belli, e la descrizione dei caratteri, per esempio nella scena della bisca in cui Amerigo a forza di blandizie e minacce si gioca tutti i soldi del Riccetto); e non credo che a scuola ci sia modo di leggere Le ceneri di Gramsci, che è ormai poesia troppo lunga e involuta: ma la voce che parla nel Pianto della scavatrice, specie nei due primi movimenti, è così convincentemente umana da non avere forse paragoni nella poesia italiana del pieno Novecento.

Anni Sessanta: L’odore dell’India, che naturalmente è un ottimo esempio di come non si scrive un reportage dall’India, ma proprio per questo resta impresso nella memoria molto di più del simmetrico reportage indiano di Moravia; la posta dei lettori su Vie Nuove e Tempo, un esercizio che costringe Pasolini alla sintesi e alla chiarezza, due virtù che fanno spesso difetto agli scritti più liberi degli stessi anni.

Anni Settanta: le recensioni-saggio raccolte in Descrizioni di descrizioni, magnifiche sia quando tentano in quattro pagine la sintesi di un autore («In una mattinata, ho riletto d’un fiato le poesie di Gozzano»), sia quando divagano (le prime pagine della recensione al Demone meschino di Sologub sono un ritorno sul tema del genocidio, ma con una levità e una poesia che mancano del tutto agli elzeviri esagitati del Corriere), e persino quando il partito preso e le idiosincrasie personali portano a sottovalutazioni ingiuste (Fenoglio).

Ci saranno stati certamente critici più preparati e aggiornati e profondi di lui, ma il suo modo di parlare di libri è bellissimo. E ho ri-riletto gli Scritti corsari e le Lettere luterane, con la solita miscela di ammirazione per l’intelligenza e di irritazione per l’unilateralità (anzi, forse perché invecchio, con più irritazione che ammirazione, anche per la traccia che hanno lasciato: ci torno subito).

Ho anche riprovato a leggere o vedere ciò che dell’opera di Pasolini per anni mi è risultato indigeribile, ma anche stavolta mi sono arreso quasi subito: niente poesie friulane, niente insostenibili poesie-pamphlet degli anni Sessanta-Settanta, niente appunti, abbozzi, sceneggiature per film mai realizzati; niente contraffazioni in varie salse della Commedia; niente “Pasolini e la tragedia greca”; niente scartafacci di Petrolio.

Dei film, sono riuscito a finire Accattone; gli altri me li ero autoimposti da ragazzino a un cineforum pomeridiano, e me n’era rimasto il ricordo di oscuri simbolismi e di una noia terribile, che non ho avuto cuore di infliggermi di nuovo (certe cose poi devo confessare che mi sembrano proprio ridicole, come gli Appunti per un’Orestiade africana, che Siti invece giudica «splendido»: con gli studenti africani convocati in blocco, senza distinguere tra nazioni ed etnie, a rispondere a domande tremende sull’attualità di Eschilo nell’Africa postcoloniale: «Je n’ai pas trop bien compris la question mais…»).

Accennavo alla scuola, che è importante: forse non si riflette abbastanza su quanto conti il canone scolastico per il formarsi e il consolidarsi della memoria nazionale. Ho l’impressione che al di fuori della cerchia dei lettori di professione il Pasolini che conta e rimane sia il politico-censore-profeta che scrive dopo il genocidio.

Gli altri libri che ho citato nelle scuole non si leggono quasi più, gli Scritti corsari e le Lettere luterane sì; e se anche non si leggono vivono negli epigoni, perché buona parte delle idee ricevute, alcune sensate altre meno, che sono circolate a sinistra nell’ultimo mezzo secolo (anti-progressismo, anti-americanismo, liquidazione delle trente glorieuses come storia di abusi, crimini, saccheggi che ha obliterato «la intensità, la completezza, la purezza della vita» che si viveva prima del miracolo economico, nostalgia dell’umile Italia rurale, disprezzo per i poveri che per fuggire dalla povertà accettano la miserabile emancipazione piccolo-borghese, orrore per la televisione, l’ombra del neocapitalismo trovata dappertutto, come oggi del neoliberismo), buona parte di queste idee ricevute ha radici in quei libri.

Basta vedere con quale entusiasmo studenti di Lettere nati dopo il 2000 reagiscono leggendo frasi come «che meraviglioso paese era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo», quando «le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità», e si poteva essere certi che «quella meravigliosa cosa che era la forma della vita non sarebbe cambiata».

Questa stagione dell’opera di Pasolini è quella su cui Siti si diffonde di meno, e mai organicamente (l’introduzione al Meridiano dei Saggi sulla politica e sulla società l’ha scritta Bellocchio, non lui); è un peccato, ma molte osservazioni centrate affiorano per esempio nella premessa, o nel primo capitolo di sintesi, e poi qua e là nel libro come obiter dicta (ecco per esempio spiegato benissimo in tre righe, nello studio su Pasolini e l’Iliade, l’oltraggioso esperimento mediatico degli ultimi anni: «Quello che sul piano erotico era il sogno di una sessualità libera dalle colpevolizzazioni “paterne”, sul piano politico diventa il sogno di un uso libero e anarchico dei media, in cui l’individuo possa permettersi interventi diretti e scandalosi, trasformando la propria vita in un “poema d’azione”»).

E poi c’è il saggio più breve del libro, che è forse anche il più bello, perché le cinque pagine del Mito Pasolini fanno giustizia del mito Pasolini, ovvero del modo in cui, senza sua colpa, la retorica idiota della società dello spettacolo si è impadronita della sua opera – specie appunto la sua opera pubblicistica degli ultimi anni – facendola diventare un campionario di slogan e frasi fatte: il Pasolini-profeta, il Pasolini-santino mobilitabile contro tutti i mali dell’esistenza, e perciò simpatico tanto a sinistra quanto a destra («Qui non ce l’ho con Pasolini né col suo lavoro, ma con quel che all’inizio degli anni Duemila era diventata la sua figura mediatica»).

In queste poche pagine il lettore fa esperienza dell’altro stile saggistico di Siti: non quello dello studioso ma quello dell’elzevirista, dell’autore di mini-pamphlet che in questi anni è venuto pubblicando sui quotidiani, su Domani o sulla sua rivista L’età del ferro (il prodotto più recente di questa vena è l’eccellente Contro l’impegno): per me la migliore, cioè la più intelligente prosa non narrativa che si possa leggere oggi in Italia (complimenti, sempre, a Repubblica per averlo fatto andare via).

Nei Meridiani, i testi di Pasolini si succedono in ordine cronologico, edito e inedito insieme: contro questa scelta sono state sollevate a suo tempo obiezioni sensate, ma tutto sommato non vincenti: è vero che si perde la distinzione a prima vista tra pubblicato e non pubblicato, ma è anche vero che quella distinzione la si recupera grazie alle note, che per uno scrittore come lui può non essere discriminante «il criterio di finitezza», e che l’ordine cronologico sollecita e favorisce altre scoperte.

I saggi di Siti non seguono invece l’ordine di composizione ma sono montati «dal generale al particolare», scendendo dalla visione dell’opera nel suo complesso a suoi aspetti particolari (il rapporto con l’epica greca, con Elsa Morante, con Proust eccetera). Ogni saggio è preceduto da una nota scritta adesso che ha il compito di dire a quale frazione del corpus pasoliniano sia dedicato il saggio, e a quale momento della riflessione di Siti corrisponda: insomma Siti assorbe dal suo autore il costume dell’autocommento, con corredo di rettifiche, limitazioni, ricalibrature, resipiscenze; ma a differenza del suo autore, che non sapeva cosa fosse, Siti è provvisto di autoironia, sicché queste illustrazioni preposte ai saggi sono tra le parti più gradevoli del libro.

L’ordine non cronologico rende non immediatamente percepibile lo stacco che mi pare ci sia tra i saggi scritti prima dei quarant’anni, o attorno a quell’età, prima cioè che cominciasse il lavoro a Scuola di nudo, il romanzo d’esordio di Siti, e i saggi sollecitati dal lavoro ai Meridiani. Il Siti giovane è quello del libro sul Neorealismo nella poesia italiana (1980) e del capitolo sull’inconscio per la Letteratura italiana Einaudi (1986); è l’allievo di Orlando, il lettore di Lacan e Matte Blanco.

Devo confessare che i saggi su Pasolini di quel periodo mi riescono per ampi tratti poco comprensibili: certo, e non sono ironico, per mio difetto di cultura nel campo della psicanalisi post-freudiana; ma anche perché mi pare che Siti, il Siti di quegli anni, alla limpidezza dell’argomentazione, che richiede pazienza, preferisca il lampo della formula risonante, dell’aforisma, e che questo gusto gli suggerisca espressioni terribilmente scorciate, delle quali il lettore (almeno questo lettore) fatica ad afferrare il senso: «Una medesima vischiosità coinvolge insieme opera letteraria, inconscio e Potere.

I rapporti tra infinita dispersione e limite-forma si miscelano sotterraneamente nell’immediatezza del non pensabile. Ma se il Potere coincide con l’inconscio e lo realizza, vuol dire anche che il Potere espropria l’individuo del proprio inconscio, trasferendo in un indicibile Aperto il bisogno psicologico di unità e di indistinzione» (devo dire che questo difetto, questa opacità un po’ kitsch, qui dovuta a un ingorgo di suggestioni culturali, mi capita di coglierla talvolta anche nella scrittura per il resto ammirevole dei romanzi e della non-fiction; in Exit Strategy, poniamo: «Lo stato è il maggiordomo a cui affidare un’onorabilità che ci pesa. I bambini di Hamelin udivano la musica del pifferaio, noi vaghiamo storditi dagli ultrasuoni di un’indifferenza mutilata. L’afa e le ferie brulicano di verità oscure perché troppo evidenti». Lì ingorgo di cultura, qui direi fretta di condensare le idee in formule lapidarie, fretta che le rende sfocate).

Altrove, come nel saggio sulle Ceneri, l’argomentazione è costruita invece attraverso un patchwork di citazioni pasoliniane: ma le citazioni stesse sono ambigue, e avrebbero bisogno di un contesto chiarificante, non, come invece accade, di rapide allusioni a una tesi interpretativa che si dà per presupposta.

Il lavoro ai Meridiani dà prima di tutto a Siti un oggetto perimetrato, o una serie di oggetti da distinguere nell’analisi: non più L’opera di Pasolini (che era il titolo della sua tesi di laurea) ma i suoi vari libri; e poi un pubblico largo, al quale bisogna parlare in un linguaggio più piano; e nel frattempo, con gli anni, si è diluito un po’ anche l’imprinting psicanalitico e teorico-letterario degli anni della Normale, e il loro gergo. Il primo, il secondo e il quarto saggio del libro – introduzioni ad altrettanti volumi dei Meridiani – sono splendidi, e tanto più avvincenti quanto più si concedono notazioni estemporanee, fatte senza l’ossessione della lettura profonda o del sistema (poniamo: «In limine a un percorso che ci porterà ad attraversare molta sofferenza e non poca menzogna, credo sia giusto ricordare che Pasolini ci ha dato nelle sue opere, e non solo in Ragazzi di vita, delle meravigliose estati»); e così anche le due riletture di Ragazzi di vita e di Una vita violenta (2007).

Chiude il volume, prima di una sezione di Varia, il saggio introduttivo alla nuova edizione di Petrolio appena pubblicata da Garzanti. Se n’è parlato e se ne parlerà perché Siti si dice convinto che proprio perché stava scrivendo Petrolio e si apprestava a rivelare, documenti alla mano, le responsabilità di Cefis nell’omicidio Mattei e nelle stragi dei primi anni Settanta, Pasolini fu fatto assassinare dalla mafia: «Se qualcuno è arrivato a uccidere, vuol dire che aveva saputo del progetto pasoliniano e ne era spaventato: ha creduto davvero che uno dei più ascoltati intellettuali italiani, inesauribile innesco di polemiche, avrebbe scritto chiaro e tondo in un suo romanzo che l’assassinio di Mattei era stato voluto e organizzato da Cefis, con il supporto della mafia siciliana».

A me francamente pare un’ipotesi enorme, e che avrebbe bisogno di prove ben più solide di quelle citate da Siti. Quanto alla denuncia di «uno dei più ascoltati intellettuali italiani», era lo stesso intellettuale che una settimana sì e una no chiedeva di istruire contro i «gerarchi democristiani un processo penale, dentro un tribunale, e quivi accusati di una quantità sterminata di reati»; di abolire la scuola media; di abolire la televisione; oltre ovviamente a essere a conoscenza di tutti i nomi di tutti i mandanti di tutte le stragi italiane – è probabile che l’avrebbero trattato da matto, e stavolta (non le altre) con qualche ragione.

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