L’espressione “buon senso”, in castigliano, si traduce con sentido comun: il sentire dei più, della polis in cui viviamo. A ignorarlo, si corre il rischio di perdere consensi e persino potere, ammesso che il potere sia ancora qualcosa sancito dal basso e non un bastone dato in mano a un pastore o a un presidente, tanto più pericoloso quando convinto di avere dalla propria le forze del cielo. Se come definizione di potere prendiamo quella un po’ ruffiana pronunciata da Juan Roman Riquelme nella sua prima intervista da presidente del Boca Juniors – «Avere potere è che la gente ti vuol bene» – potremmo inferire che, dopo appena un mese di governo, il credito del presidente argentino Javier Milei sia già in crisi.

Gli insulti rimediati alla Bombonera di Buenos Aires nel giorno delle elezioni societarie, a una settimana dal suo insediamento alla Casa Rosada, erano solo un anticipo del cacerolazo con cui la gente comune ha accolto un decreto di necessità e urgenza sfacciatamente anti-patria e pro-casta, che umilia la moneta nazionale e libera i prezzi, rendendo il mercato un posto finalmente selvaggio. Un programma-shock in perfetto stile anni ’90, dove tutto ciò che puzza di statale e di pubblico viene spinto verso mani private e/o straniere, con tanto di menzione d’onore per la Starlink di Elon Musk al capitolo telecomunicazioni.

Curioso, allora, che in mezzo a tale burrasca le premurose volpi ultraliberiste si affrettino a inserire, tra le oltre 300 norme da derogare, la possibilità che i club di fútbol si convertano in società anonime, «nel caso lo vogliano». Eventualità finora proibita dalla federazione argentina e ripudiata da quel sentire comune e trasversale che Milei si ostina a disprezzare. Condensato dallo striscione portato in campo da River Plate e Rosario Central la sera della finale di supercoppa argentina: «Il fútbol non ha necessità né urgenze».

¿No pasarán?

Non di rado disposta a sorvolare su certe inquietudini democratiche pur di liberarsi dallo statalismo peronista, quando si parla di calcio buona parte della classe media argentina pare affetta da una sorta di bipolarità cronico/patriottica: da un lato vota chi promette di svendere il paese, dall’altro rifiuta l’idea che i club, associazioni civili in mano ai propri soci, vengano anche solo in parte assorbiti da fondi stranieri, come già succede in Cile, Bolivia, Uruguay e Brasile. Una questione di identità, consolidata dai successi di una Selección formata da pibes cresciuti nelle scuole di baby-fútbol sparse per il paese. Mentre la sparata di Javier Milei sulla presunta volontà del Chelsea di comprare Boca, Racing, Lanus, Banfield, Estudiantes e Newell’s era priva di fondamento, il taglio dello sport da ministero a semplice sottosegretariato, affidata al manager di calciatori Ricardo Schlieper, ex-candidato di Rosario per il PRO di Mauricio Macri e promotore delle società anonime, potrebbe essere un sintomo dell’imminente avanzata privatizzatrice.

In una recente intervista, il campione del mondo Nicolás Tagliafico (scuderia Schlieper) lamentava il basso livello dei tornei argentini e la sempre più precoce diaspora di giovani talenti verso Europa e USA. Gli ultimi a partire sono stati Valentin Barco (classe 2004) dal Boca Juniors al Brighton di Roberto De Zerbi, e il diablito del Mondiale Under-17 Claudio Echeverri (2006), dal River Plate al Manchester City previo probabile scalo in Spagna, al Girona di Pere Guardiola, fratello di Pep: uno dei 13 franchising del City Football Group, che in Sudamerica possiede il Montevideo City Torque, retrocesso a dicembre, l’Esporte Clube Bahia, salvo all’ultima giornata del Brasileirao, e il Bolivar di La Paz. Eccellenti piattaforme per muovere pedine da un continente all’altro, come nel caso dell’attaccante argentino Taty Castellanos, passato da Montevideo, New York e Girona prima di approdare alla Lazio. Triangolazioni funzionali a una dimensione mercantile del tipo centro/periferia, dove i tifosi del City di Montevideo, Los Ciudadanos, si ritrovano a sventolare sciarpe celesti come quelle viste in tv, all’Etihad Stadium di Manchester.

Scommesse e sentenze

Che in Argentina sia un buon momento per l’entrata di nuovi mecenati internazionali lo si intuisce osservando i nomi delle case di scommesse online sulle maglie di Boca e Racing (Bettson), River e Lanus (Codere), Newell’s e Rosario Central (City Center), Estudiantes e Velez (Bplay). Una tendenza inaugurata nel 2022, in occasione della Finalissima di Wembley con l’Italia, con l’intesa tra AFA e Betwarrior, il cyber sponsor di Scaloneta, Copa Argentina e serie B: il triangolo di potere del presidente Chiqui Tapia, che all’universo delle serie minori conosciuto come Ascenso deve l’impulso e l’appoggio necessario a gestire le volubili gerarchie albicelesti. Un contesto spesso torbido, che il giornalista investigativo Declan Hill, autore del libro Calcio Mafia e coordinatore delle ricerche su scommesse e match fixing dell’Università di New Haven, Connecticut, non esita a definire «total shit», riferendosi al binomio scommesse/partite combinate.

Un fenomeno continentale, che in Brasile ha coinvolto giocatori e club di serie A come Santos, Cruzeiro e Fluminense, e che in Bolivia ha obbligato il presidente federale Fernando Costa a denunciare la rete di giocatori, dirigenti e arbitri che manipolavano i tornei di serie A e B mediante tangenti, scommesse e alterazione del VAR. Considerando le tariffe emerse dalle indagini (3000 dollari a un arbitro per propiziare 3 gol in un tempo e 5000 dollari a un difensore per un fallo da rigore) non sorprende che per quasi un anno il narcotrafficante uruguayo Sebastian Marset, inseguito da Dea e Interpol per l’esecuzione del giudice paraguaiano Marcelo Pecci, abbia trovato rifugio nel campionato di Santa Cruz de la Sierra, vestendo la maglia numero 23 dei Leones del Torno e facendosi passare per un centrocampista brasiliano oriundo di Pernambuco, Luis Paulo Amorim, regolarmente tesserato dalla confederazione brasiliana CBF.

A proposito di Brasile: le crisi dei vicini, per gli argentini, sono da sempre fonte di piacere più o meno esplicito. Già stuzzicata dal possibile arrivo di un DT straniero come Carlo Ancelotti (evento percepito come un segnale della decadenza verdeoro), la Schadenfreude albiceleste è aumentata quando la Fifa ha minacciato di escludere il Brasile dalla Copa América 2024 e dai Mondiali 2026. Il motivo: la destituzione del presidente della CBF Ednaldo Rodrigues da parte del Tribunale di Giustizia di Rio de Janeiro, per le irregolarità riscontrate nella sua elezione. Un’ingerenza statale negli affari del pallone inaccettabile per Fifa e Conmebol, il cui ultimatum ha fatto evidentemente riflettere più di un giudice: il 4 gennaio, su raccomandazione della Procura Generale della Repubblica, la Corte Suprema del Brasile annullava la sentenza del Tribunale di Rio, restituendo la presidenza della CBF a Ednaldo Rodrigues. Tornato dunque in sella, ma senza Carlinho Ancelotti in panca.

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