L’arrivo allo Juventus Stadium, o meglio, come segnalato da Google Maps, Allianz Stadium (oggi ci si compra il diritto a mettere il proprio nome alle cose, Allianz, gigantesco gruppo assicurativo, fa incetta di stadi, per esempio) è straniante.

L’oggetto è architettonicamente bellissimo; il tempio dei bianconeri supervincenti, uno dei pochi stadi di proprietà di una squadra di calcio in Italia. Ma è deserto. Come un lunedì mattina. Strade vuote, nessuna coda, parcheggi sterminati. Qualche auto della polizia sotto un tramonto grigio e freddo nonostante la temperatura sia mite.

È tutto talmente rarefatto che si fa fatica a orientarsi, in questo deserto di cemento nel quale abbiamo vissuto per un anno e passa; sembra finito, ma stasera, per me, non lo è di certo. Mi vene in mente la nota raccomandazione che i medici, con il loro tono che vorrebbe essere rasserenante ma riesce solo rassegnato, fanno ai parenti delle persone, alle quali hanno diagnosticato una malattia degenerativa del sistema nervoso.

È importante che le cose intorno al paziente non cambino, così che possa mantenere il più a lungo possibile i riferimenti e la capacità di muoversi in maniera funzionale. Ecco; a noi hanno tolto quei punti di riferimento e benché sani, o presunti tali, abbiamo perso il senso dell’orientamento – che sono gli altri.

Noi guardiamo gli altri e ci aspettiamo di trovarli, ancor di più quando la dissonanza diventa feroce come in uno stadio acceso ma vuoto. In auto sentivo l’aspettativa, la tensione e l’adrenalina della partita. Ma arrivato lì, il mio cervello va in tilt. Tensione per cosa? Adrenalina per cosa? Non c’è nessuno qui. Ho sbagliato giorno, mese, anno, tempi?

Non credo a quello che vedo

Saper qualcosa (hey, c’è una pandemia, sei qui apposta a vedere la partita nel nulla) non equivale a convincerci che sia davvero così. Una parte di noi lotta e sempre lotterà contro l’evidenza. Non credo a quello che vedo, semplicemente.

Avvicinandomi sento una musica tamarra pompata al massimo che anziché cancellare il silenzio lo amplifica. Tutto molto disorientante; dove sono le folle di tifosi, i bambini con la maglietta della squadra, i chioschi con i gadget contraffatti e quelli con birra e panino con la salsiccia? E le forze dell’ordine, la cacofonia di automobili, i sorrisi aperti di chi va alla festa del pallone?

Non ci sono, ci sono solo io – che ho anche fatto tardi e quindi all’unica lucetta accesa fuori dallo stadio, il piccolo ufficio dove si ritira il pass per entrare, ci sono solo io, tanto che ci arrivo direttamente in macchina. Scendo al volo a ritirarlo. Sono in ritardo, mi sono perso, ho girato intorno allo stadio con troppo facilità ma in preda a una strana confusione mentale, senza cercare davvero il posto che mi serviva.

Chiedo alla gentilissima signorina se c’è un bar, mi spiega che c’è un catering. Io penso alla birra che per la prima volta in vita mia non bevo prima di una partita serale, temo che per questo sarò punito dagli dèi del calcio e della birra, entità alle quali tengo moltissimo.

Supero minuziosi controlli. Si assicurano che la mia temperatura sia a posto (per un attimo immagino un mondo pandemico nel quale la temperatura viene presa per via rettale, code di persone pronte a calarsi le braghe), che non abbia armi addosso e nonostante l’apparenza sia davvero autorizzato a un posto in tribuna stampa.

La perfezione dell’accoglienza nel modernissimo stadio accresce il mio senso di displacement: allo stadio le cose non funzionano mai, i processi collassano sotto l’onda d’urto della folla. Qua ci sono solo io, solo io, sembra che queste decine di gentilissimi e competentissimi assistenti siano qui solo per me.

Mi viene consegnato il sacchetto del catering: un bagel raffinatamente farcito, una pizza e altre piacevolezze, insieme a una bottiglia d’acqua. Niente birra, vero? Chiedo al giovane gentile. Lui sorride e dice “temo di no”. Vorrei dirgli che già è dura così, almeno la birretta, dai, così un minimo mi aiuta a far finta di essere sano, far finta che sia tutto vero.

E poi, hey, vorrei dirgli, io non sono un cronista sportivo, devo scrivere un racconto, come si fa senza nemmeno una birretta? Ma rimango muto come un bimbo colpevole, lo lascio al suo sguardo sorridente (di scherno?) e vado.

Speculazione con esseri umani

In questa atmosfera incongrua si gioca la partita di campionato Juventus-Milan, in palio di fatto l’accesso alla Champions League, una delle competizioni sportive più importanti, spettacolari e remunerative del mondo. Che, peraltro, ha rischiato di morire solo poche settimane fa, a causa del tentativo di golpe dei ricchi d’Europa che avrebbero voluto farsi una lega tutta loro: la Superlega, un nome da cartone animato calcistico: i Superboys, ve li ricordate?

La Superlega fallisce con grande sollievo dei difensori di una cosa che già non c’è più da un pezzo: il calcio puro e all’antica.

Il calcio è capitalismo e speculazione finanziaria, con l’effetto collaterale positivo di avere bisogno di noi per campare. Finché ci saranno quelli disposti a pagare per avere il calcio – o meglio, per vedere la propria squadra in campo – il calcio vivrà. Chi aveva immaginato che ci fossero i buoni e i cattivi (la Uefa e la sua Champions League da una parte, la Superlega dei ricchi dall’altra) ha preso una cantonata. Non ci sono buoni, solo tipi diversi di speculatori. Vabbè.

Esaurite queste oziose riflessioni mi concentro sui motivi per i quali sono qui: venire a vedere il calcio in vitro, sentire le urla dei calciatori e dei tecnici, fare questa (ultima?) esperienza da pandemia.

Il secondo motivo è che sono milanista da sempre e mi manca lo stadio – tuttavia mi sono già accorto che l’esperienza che sto facendo non entrerà nella categoria “andare a vedere il Milan”. Eppure spero che come sempre, anche stasera, quando vedrò la mia squadra in campo mi scorderò di tutto.  

Ma il mio vaneggiamento di vivere la partita in campo, nel silenzio dello stadio, si rivela tale quando prendo posto. Sono in mezzo a mille voci baritonali che radiocronizzano. Quindi il silenzio me lo sogno. Nessun coro, facce, colori, ma voci, tante e tutte sovrapposte. Di quel che accade in campo non sentirò un bel niente.

I giocatori sono sull’erba, pronti a cominciare la recita televisiva. Io seduto sul banchetto grigio, mi sento davvero fuori posto: hanno tutti il computer davanti, pronti a scrivere il pezzo sulla partita oppure, i più giovani, ad aggiornare pagine web di cronaca live.

Dietro di me, proprio dietro di me, c’è il radiocronista di Tutto il calcio minuto per minuto di RadioRai, la cui voce è un sollievo, mi orienta un po’ nella situazione incongrua che il mio cervellino non riesce a tenere insieme. La partita comincia mentre divoro il contenuto del sacchettino del catering, insozzando immondamente la postazione (sguardi di reprimenda dai giornalisti seri mentre cerco di pulire) e creandomi un ulteriore pesantissimo fardello sullo stomaco.

E no, non riesco ad entrarci nella partita. È davvero il Milan, lì sotto, che gioca contro la Juve nel suo stadio fichissimo? M’incanto a seguire i guardalinee che anche quando l’azione è lontanissima stanno tesi, con le gambe piegate e pronte allo scatto, mantenendosi in linea con l’ultimo giocatore della difesa di loro competenza.

La recita del guardalinee

Anche loro recitano, penso, tanto c’è il Var, se sbagliano non fa niente. Poi noto poco sotto di me il famosissimo Pellegatti, il fanatico cantore delle gesta del Milan, nonché inventore di soprannomi memorabili per i nostri giocatori e attuale portatore di un riporto altrettanto memorabile.

Nemmeno lui ha il computer, meno male. Continua a ripetere a un tale «te lo ricordi quando…?». Un poco mi risveglio. Ma ancora niente, non mi sembra una partita. Poi facciamo gol. Gol! Un gol bellissimo di un ragazzino spagnolo col volto da giovane studente di legge. La mette all’incrocio.

Gol! Gol! Esultiamo in tre in tribuna stampa. Io, Pellegatti e un ragazzotto che lavora per la testata Daily Milan, che fingo di conoscere quando me lo dice. L’assedio della Juventus nel secondo tempo, un rigore sbagliato dal Milan, mi fanno miracolosamente entrare in partita. Ma vuoi vedere che ora la perdiamo?

Mi accuccio sulla superficie del banchetto e guardo fisso il campo, riesco anche a imprecare e a urlare qualcosa ai giocatori. Siamo io e loro, ora; alla fine prevale la passione, solo grazie alla sofferenza, l’arma emotiva definitiva. Ma dura poco: presto segniamo un secondo e un terzo gol, tripudio, gioia, vittoria fantastica, ma sarà vero?

Finita la partita ho voglia di fuggire via. Do un ultimo sguardo al bellissimo stadio, inerme con tutto il suo carico di aspettativa disattesa: la meravigliosa modernità? Il futuro realizzato? Dove?

Visto oggi, nel momento in cui il presente ha assorbito ogni possibile futuro, fa tenerezza; è un guscio vuoto di futuro e monco di presente. Non ha un tempo nel quale assolvere alla sua funzione. Ma presto, dicono, il tempo tornerà a esserci davvero.

Risalgo svelto in auto, cerco una radio che parli della partita, per confermarmi che è esistita davvero, non la trovo. Allora mi fermo in autogrill, compro due birre e metto su un cd noise. Guido veloce, voglio tornare a casa.

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