Odio l’estate. Da quando sono diventata mamma. Prima l’amavo, tantissimo: il sole, il mare, gli aperitivi, le t-shirt, le giornate lunghe che ti sembrava di avere più tempo per tutto e i viaggi in luoghi lontani.

Poi sono arrivati i bambini – prima una, poi un altro e infine l’ultima, che qualcuno dirà: allora te la sei cercata – e da dieci anni ogni mattina tra metà giugno e metà settembre mi alzo e penso: come farò oggi ad andare al lavoro? Come fanno le altre mamme e papà senza scuola per quasi tre mesi?

Così li osservo, mentre sfrecciano nei parcheggi e cortili dei centri estivi, accaldati e stanchi già alle 8.30 del mattino, presi da una logistica creativa che li obbliga a ricostruire i modelli organizzativi scolastici ma in altri spazi, spesso più lontani e a costi più alti.

A volte capita che mi restituiscano lo sguardo in modo complice: anche questa estate finirà, ci diciamo senza usare la voce. Che così non si può andare avanti. E invece ci andiamo, avanti, nell’indifferenza generale della politica che continua a ignorare che portare avanti un calendario di chiusura scolastica estiva legato al ciclo del grano è, semplicemente, anacronistico.

Oggi, se si è fortunati e si hanno ferie e soldi, si va in vacanza con i figli due settimane di fila in qualche posto carino e poi si torna a casa. Non tre mesi, manco uno. Due settimane. Che sono solo un piccolo pezzetto delle QUATTORDICI che si devono occupare in un qualche modo, aspettando la campanella di settembre. Sì, ma come?

Il girone infernale dei centri estivi

«Tu dove li mandi?». La domanda inizia a girare a maggio nei cortili delle scuole e le chat di classe diventano il luogo di spaccio di link e opzioni per accoppiare fratelli e sorelle di età diverse nello stesso posto. Il sogno di tutte le famiglia con più di un figlio, spesso irrealizzabile.

«Qua li prendono dai 5 ai 12 anni, fanno sport e alla sera crollano di sonno. Io li mando per tre settimane», scrive una mamma e subito fioccano i cuori, che se ci guardi bene sono tutti piazzati all’altezza del “la sera crollano di sonno”, frase magica che crea l’illusione collettiva di poter avere una vita nel dopo cena, magica, nascosta, magari di coppia: aprire una bottiglia di vino bianco freddo, parlare senza essere interrotti ogni tre secondi e guardare un film vero e non un cartone animato.

Come se fossimo tutte sotto l’effetto dello stesso allucinogeno, apriamo il link e guardiamo dov’è questo camp meraviglioso, che potrei mandarne lì due su tre e rimediare qualcosa per la piccola, magari in un posto vicino.

Doccia fredda: il centro estivo multisport nel verde natura e con pasti forniti dal ristorante della struttura costa 170 euro a settimana, dalle 8 alle 16. Faccio un rapido conto, determinata a bere quella bottiglia di vino con mio marito: 170x2=340 e se trovo qualcosa per la piccola non sarà a meno di 140 euro alla settimana che sommato a quello fa 480 euro a settimana per tre centri estivi, che sommato alla bottiglia di vino (buona ma una sola, per risparmiare) fa 500 euro tondi tondi.

Se avessi anche solo quattro settimane da organizzare, sarebbero 2mila euro. Molto più di uno stipendio mensile medio, sicuro più del mio.

Chiudo la chat odiando tutti e cerco qualcosa di più sostenibile (che è un modo elegante di dire economico) e trovo un centro estivo a 70 euro la settimana, al posto del verde natura c’è un cortile di cemento con qualche albero e un quadratino di erba, non fanno multisport ma attività di gioco e non c’è il ristorante, neanche una mensa, e quindi merenda e pranzo si portano da casa.

Le settimane successive, io che odio cucinare, mi alzerò ancora prima del solito per preparare pacchettini con dentro cose abbastanza commestibili e semplici da essere mangiate seduti su una panchina. Al secondo giorno preparo mezzo chilo di pasta fredda. Indovinate cosa hanno trovato i bimbi nel lunch-box per il resto della settimana? E quella dopo?

Un welfare basato sui nonni

Due figli su tre sono sistemati, resta solo la 2enne. Nel suo nido non è previsto un prolungamento a luglio e altre soluzioni sono ancora più costose e logisticamente complesse.

Io e mio marito ci guardiamo in faccia e giochiamo a tetris con le agende, costruendo un piano organizzativo da fare impallidire un generale dell’esercito e che coinvolge, suo malgrado, l’unico nonno che abbiamo a disposizione.

Se tutto fila liscio – nessuna malattia, insolazione, crisi esistenziale, impegno di lavoro imprevisto – rinunciando totalmente a qualsiasi spazio di solitudine e giocandoci flessibilità e permessi, riusciamo a cavarcela per un po’.

Con i soldi risparmiati possiamo raddoppiare le bottiglie di vino mensili, peccato che nessuno dei figli la sera crollerà dal sonno e ci toccherà ingurgitarle mentre giochiamo a LOL chi ride è fuori, versione casalinga.

In città è la settimana da bollino rosso, andare a prendere i due grandi alle 16 al centro estivo mi fa sentire come Obi-Wan Kenobi che affronta Anakin Skywalker in mezzo alla lava (sto guardando la saga di Star Wars con il seienne, per ammazzare il tempo) e ho paura che la piccola mi si sciolga in braccio durante il tragitto. Le vacanze di agosto non sono mai sembrate così lontane.

Incontro una mamma amica per strada, ha il volto disteso e nessun figlio a saltellarle intorno: «Sono dai nonni in montagna, tutto il mese. Poi vanno dai suoceri, al mare, due settimane» mi dice sorridendo.

Io già penso di bloccarla sul telefono. Ma chi non ce li ha i nonni? Chi deve lavorare? Chi non ha i soldi per i centri estivi? Chi non ha tempo o gli strumenti per seguire i figli nei compiti? Come è possibile abbandonare così migliaia di famiglie?

Al di là dei bonus (per chi vi può accedere), la verità è che l’estate è un incubo e che l’unico modo per offrire opportunità democratiche a famiglie e bambini sarebbe quello di tenere aperte le scuole almeno fino a fine luglio. E riaprirle a inizio settembre. Tutte quante.

Poi se uno ha i nonni, che vada in montagna. Ma chi non li ha può accedere a laboratori, sport, spazio compiti, momenti di socialità e condivisione a prezzi ragionevoli. Lo si propone da anni, nulla si muove.

Mamme parcheggine e ciclo del grano

L’ultimo appello arriva dal profilo di Mammadimerda, che con We World Onlus ha lanciato il documento “Cambiamo il calendario”, una serie di proposte per rendere il sistema scolastico più inclusivo e attento alle esigenze delle famiglie contemporanee.

Lo leggo e poi butto un occhio rapido ai commenti, come esercizio di analisi sociologica. Da una parte trovo chi ha figli e non sa come fare e chiede servizi: «Io e mio marito ci siamo alternati le ferie per risparmiare sui centri estivi ma così poi non siamo riusciti ad andare in vacanza e i bimbi hanno passato l’estate in città al caldo», racconta una mamma, e dall’altra persone che si trincerano dietro i propri privilegi senza capire minimamente le necessità degli altri.

Chi chiede spazi educativi ma economici dove mandare i figli mentre è al lavoro viene additata come “mamma parcheggina” – se c’è un club, vi prego, datemi la tessera – oppure gelata con commenti tipo “Non servono centri estivi ma congedi parentali per stare a casa in estate con i figli”.

Immagino un paese dove in estate un terzo della popolazione in età lavorativa sta in congedo, sicuro quasi totalmente donne, bloccando qualsiasi tipo di servizio – «Stai per morire ma io, medico, ero a casa con i figli perché i congedi sono meglio dei centri estivi» – mentre chi propone di estendere l’apertura della scuola viene aggredito: «E gli insegnanti non hanno diritto alle ferie estive? Se non hai i soldi per i centri estivi non possono rimetterci loro».

Abbiamo un calendario scolastico che si basa sul ciclo del grano e sulle necessità delle famiglie che erano impegnate nella mietitura, una buona fetta di popolazione che ancora pensa che se cerchi un posto dove lasciare al sicuro i tuoi figli mentre lavori sei una madre degenere che li vuole parcheggiare e in tutto questo caos ho finito le bustine di magnesio e potassio che ormai sono il mio nuovo gin tonic.

Inizio a pensare che non basta rimodulare il calendario estivo, serve una rivoluzione culturale.

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