Fin dai tempi de L’uomo in più, per arrivare a una serie come The New Pope, Paolo Sorrentino ha palesato il suo amore per il contrasto e il conflitto; di fatto detesta la supposta perfezione e l’equilibrio, quasi quanto ama chi si mette in discussione, chi cerca di andare oltre le apparenze che ci circondano.

Vi è tutto questo in È stata la mano di Dio. Ma vi è soprattutto uno sguardo inedito, una dimensione anche estetica mai vista prima nel suo cinema, con cui il regista cerca di riconciliarsi con Napoli, narrata seguendo i suoi passi da sedicenne, negli anni in cui Maradona disegnava il suo miracolo calcistico.

Un film personale

Senza ombra di dubbio, È stata la mano di Dio è il film più coraggioso di Sorrentino, perché pochi avrebbero avuto l’ardire di mettersi così in gioco, come uomini prima ancora che come registi. Egli ci mostra il suo passato, mette da parte ogni sotterfugio e artificio, ci parla di sé, di quali eventi lo hanno portato a scegliere la settima arte, del rapporto ambivalente con Napoli.

Della sua città natale, ci offre un ritratto che non aspira a essere universale o definitivo, ma semplicemente il suo, senza alcuna remora, senza che vi sia possibilità di fraintendimento. Come regista, ama da sempre mettere a disagio lo spettatore, non dargli certezze, portare alla luce i segreti e i pensieri più inconfessabili, distruggere il nostro pudore, creare lo scontro tra anime e corpi.
Parte del suo fascino di cineasta sicuramente risiede nella sua estetica barocca che ha pochi precedenti nella nostra cinematografia, basti pensare a La grande bellezza, Loro, Il divo o L’amico di famiglia.

A perfetto contraltare, opere come Le conseguenze dell’amore, Youth o L’uomo in più, hanno invece sposato una narrazione metaforica, suggerito una precisa visione della vita e della società.

Questo film è invece qualcosa di totalmente diverso, si stacca dal suo percorso per come lo si era intuito fino a oggi. Qui tutto ruota intorno a un sedicenne solo e insicuro, protetto da una famiglia tanto unita quanto problematica, posta al centro del palazzo, dei parenti, di una città immensa.

Di Napoli Sorrentino ci mostra con sguardo naturale e spartano le miserie e le bellezze, le contraddizioni e la vitalità inimitabile. La sua è una Napoli che toglie il fiato con il volto più segreto, ma assieme mette anche paura, tra quei vicoli e di fronte a quel mare, nel 1986, quando tutti attendono l’arrivo di lui, di Diego Armando Maradona.

Nel nome di Diego

Diego è un miraggio, è un sogno, a casa o durante i pranzi tra parenti si costruiscono leggende e ambizioni, è l’impossibile a cui non si crede per non rimanere delusi.

«A me Maradona ha salvato la vita» ha dichiarato Sorrentino, che gli dedicò l’Oscar, un gesto che quasi nessuno comprese in quel momento, liquidando il tutto come un eccentrico atto di vanità.

Ecco, questo film ci fa capire che la sua era una frase terribilmente vera, legata a un fatto concreto, doloroso. Lo scopriamo seguendo i passi del suo alter ego, Fabietto Chiesa (Filippo Scotti, segnatevi questo nome) che va come milioni di altri in curva a esultare per il dio pagano del pallone.

Maradona è una voce che si perde tra i vicoli, è la partita contro l’Inghilterra con i due gol più famosi di sempre, è qualcosa di troppo grande che va ammirato da lontano, con timore reverenziale, durante gli allenamenti aperti al pubblico.

Egli è “la perseveranza”, come dice il fratello di Fabietto, quella che a loro mancherà sempre. Diego ha ridato orgoglio e dignità a un popolo umiliato, gli ha regalato un sogno, questo è un mantra non confutabile per i napoletani. La storia lo ha reso condottiero degli ultimi, ed è un concetto che la sua recente scomparsa ha rafforzato.

Sorrentino ci mostra la genesi di questo racconto, di questa diade con la città, la sua capacità di stravolgere il quotidiano semplicemente venendo nominato, ma nel finale mette in scena anche il suo distacco da questa esaltazione collettiva. Per lui all’epoca, di fronte al dolore immenso della perdita, non bastò lo scudetto, non poteva bastare a colmare un vuoto, una volontà di distacco da ciò che vi era prima. Si materializza un futuro staccato da quella città e quindi dal re del San Paolo.

Ispirazioni

Sogno, realtà, si intrecciano e si confondono da sempre nel cinema di Sorrentino, così com’era per quel Federico Fellini, a cui molti lo hanno connesso in passato.

Qui egli abbraccia questo legame, ci parla come faceva il Maestro, del cinema che si erge a compensazione, àncora di salvezza di fronte alla terribile banalità della vita, alle delusioni che essa immancabilmente ci riserva. Ma Fellini non è certamente l’unico per Sorrentino. Quanti hanno riflettuto in passato sul suo legame con Sergio Leone? L’amicizia virile, la malinconia del passato perduto, i personaggi torbidi e tutt’altro che perfetti…e poi quei finali, dove persisteva la sconfitta, l’esilio senza ritorno.
Sorrentino tutto questo lo ha sempre recuperato, lo fa pure qui, orgogliosamente. È stata la mano di Dio è però sopra ogni cosa, un abbraccio al cinema e teatro napoletani, all’opera del grande De Filippo, con il suo stile ironico e graffiante, la dimensione famigliare preponderante, ripresa con rispetto e sentimento.

Ciò avviene soprattutto grazie a Toni Servillo e Teresa Saponangelo, bravissimi nei panni dei suoi genitori, eterni ragazzi impegnati in una danza sempre in bilico tra tenerezza e dramma.

Si materializza il ritratto di una Napoli anche dispersiva, opprimente, connessa a una povertà che è prima di tutto sentimentale e poi materiale. L’umanità è posta al centro di tutto, quell’umanità che storicamente, per il popolo napoletano è sempre stata tutto.

Questa è una città fatta di disperati e di sogni infranti, vi sono gli scherzi crudeli e il sentimento, il teatro delle creature grottesche e disgraziate. Poi ecco che ritorna De Filippo, con il tema della solitudine, della lotta del singolo per sconfiggere un dolore, che nel film da metà in poi sommerge ogni cosa, senza che vi sia risata che possa placarne la stretta.

Amore e sofferenza

In tutta la cinematografia di Sorrentino, l’amore ha sempre avuto due facce: una idealizzata, platonica si potrebbe dire, fatta di spiritualità e intelletto, di una femminilità elegante e talvolta eterea. Poi vi è quella reale, più sposata al desiderio carnale, all’inconfessabile, che porta con sé anche la delusione. È stata la mano di Dio sviluppa con profondità ed eloquenza questa dualità.

Luisa Ranieri si fa musa sensuale e disturbante, è portatrice di un eros che si veste di provocazione e disperazione, dove convivono morte e vita, in bilico tra una religiosità tossica e la sua negazione.

La donna per Sorrentino in fin dei conti, è sempre stata prigioniera; della società, degli uomini, del proprio corpo, per quanto scrigno di un messaggio di verità sulla vita e di libertà. Qui egli sfrutta la procacità partenopea, quella ereditata dalla tradizione partenopea, e contemporaneamente ne distrugge il mito.

Si comincia con San Gennaro, si finisce con Pino Daniele, sulle orme del passato di un regista che rimpiange la sua città, da cui si allontanò per sfuggire al dolore.

A Napoli potevo donarmi di più, pare dirci Sorrentino, che ci stordisce con il suo dolore, con la sensazione di una resa, di un’occasione persa che non tornerà più. Forse troppo lungo e con un finale inaspettatamente freddo, È stata la mano di Dio è la cronaca di una crescita nelle difficoltà, un film di formazione, su una giovinezza fatta di quell’isolamento, da cui del resto sono sempre avvolti i suoi personaggi, e che è il prezzo che pagano gli spiriti sensibili e diversi dalla norma.  

Difficile che quest’opera potente, dalla regia raffinata, possa vincere in questa Biennale. Troppo personale, troppo autoreferenziale. Ma l’onestà che vi è contenuta, il coraggio con cui Sorrentino ci ha mostrato la sua anima e la sua città, meritano grande considerazione.

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