A chi non è capitato di trovarsi in un limbo? Tornando con la mente al primo lockdown, quando dalla Cina giungevano voci su un’epidemia ignota e l’Italia si chiudeva pezzo per pezzo, molti si sono sentiti in un limbo, prima inedito, e forse persino curioso, poi costrittivo e pesante (più che un limbo, un inferno).

Essere nel limbo è tutto questo: trovarsi sospesi tra una condizione di partenza e un traguardo auspicato o forse solo immaginato; o, in altri casi, costretti a sostare in uno stato, o in uno spazio, che ha contorni di indeterminatezza.

Se oggi è questo il “nostro” limbo, per secoli esso è stato qualcosa di molto diverso. A finirci, nell’immaginario e nel sentire comune fino a non molto tempo fa, erano i bambini morti senza il battesimo.

Il problema non era di poco conto in una società in cui la mortalità infantile era un’esperienza comune e diffusa. Una società dove la prospettiva della vita ultraterrena consentiva di tenere in piedi e motivare la quotidianità e le fatiche di ogni giorno.

Per sperare in un premio dopo la morte era necessario attraversare un confine cruciale: quello del battesimo. Era quel rituale a portare i fedeli nella chiesa e, di conseguenza, a guadagnare loro la salvezza di cui la chiesa stessa si faceva intermediaria.

Che fare allora quando, come era comune, un bambino moriva in fasce, senza avere ricevuto il battesimo, prima ancora di giungere all’età del giudizio e della consapevolezza?

La condizione di queste anime era tra le più delicate: secondo il pensiero cristiano, anch’esse infatti erano segnate da una macchia che tutto il genere umano condivideva: il peccato originale.

Era un peccato strano, tanto più per una creatura appena nata che nulla aveva potuto fare di bene o di male. Ciò nonostante, come ricorda una foltissima tradizione figurativa, per colpa della disobbedienza dei progenitori – Adamo ed Eva – tutti gli uomini si trovavano a fare i conti con una naturale e indelebile inclinazione al male.

Per rispondere a questa situazione che, di fatto, gettava ombre sinistre sulla giustizia di Dio, nacque il limbo. Mai ufficialmente riconosciuto dalla chiesa come parte della propria dottrina, la credenza in questo luogo è stata diffusissima per millenni.

Prossimo all’inferno

Sulla scia del pensiero di sant’Agostino, molti teologi medievali si erano spesi per spiegarne le caratteristiche: si trattava di una zona di confine, un lembo, un margine (come dice il suo etimo), che, pur vicino all’inferno – luogo di punizione eterna, lontano da Dio – non si confondeva con esso.

Prima della morte di Gesù, il limbo aveva ospitato i patriarchi della storia di Israele: in una scena cara all’iconografia occidentale, Gesù, in attesa di risorgere, era sceso nel mondo dei morti e aveva liberato profeti e personaggi dell’Antico Testamento che avevano preannunciato la sua venuta.

La figura è quella di Cristo che trae fuori da una grotta tetra e buia delle figure decrepite, in attesa da secoli in una porzione degli inferi chiamata anche “seno di Abramo”. Ecco dunque che Gesù in persona può liberare i protagonisti della Bibbia e ammetterli finalmente alla gioia del Paradiso.

Non sembra invece potere fare nulla, dopo essere risorto, per quei bambini che non hanno lavato il peccato originale. Per loro è costruito, nell’immaginario, un luogo ad hoc.

Quelle anime patiscono una pena diversa rispetto a chi è punito per le proprie colpe: mentre i dannati soffrono sia nei sensi – cioè attraverso punizioni – sia per l’assenza di Dio, gli ospiti del limbo soffrono solo perché è loro preclusa la visione di Dio o la speranza di poterla ottenere.

Una simile concezione è, per la sensibilità contemporanea, difficile da accettare. Non è un caso se, nel 2007, la Congregazione per la dottrina della fede (l’organismo a cui la chiesa affida la definizione della corretta dottrina, l’ortodossia), abbia sentito la necessità di pronunciarsi su un tema che, secondo le critiche di molti, era un inutile retaggio medievale: in un documento appositamente preparato si spiegava che «vi sono ragioni teologiche e liturgiche per motivare la speranza che i bambini morti senza battesimo possano essere salvati e introdotti nella beatitudine eterna».

Una formula cauta che, tuttavia, segnava un passo avanti: anche se nella Bibbia non si trovava una risposta al quesito e ferma restando la necessità del battesimo, la volontà di Dio di salvare tutta l’umanità sembrava, in questo caso, dover prevalere su tutto.

La morte del limbo

Secondo molti commentatori, nel 2007 il limbo morì e, per così dire, si svuotò di tutte le anime che per secoli si era creduto potesse ospitare. Al di là dei titoli sensazionalistici, quell’avvenimento rivela molto del XXI secolo più che della teologia antica.

Spiega almeno due cose che si annidano nel sottotesto di questi “ripensamenti”: da un lato, la chiesa cattolica ha avvertito in modo crescente, in particolare alla luce del cambiamento di metodo e di merito introdotto dal concilio Vaticano II, l’esigenza di rivedere il rapporto con la propria eredità.

Dalla rigidità dell’oltremondo che popola il passato della cristianità, ci si è voluti o dovuti aprire a una diversa concezione del rapporto tra Dio e i fedeli, sollecitato dalla sensibilità contemporanea: con un volto di Dio assai diverso e sempre più aperto alla misericordia.

Dall’altro lato, la morte del limbo serviva a riflettere su un altro punto che, all’alba del terzo millennio, risultava centrale per la chiesa cattolica: le migliaia di feti o embrioni che erano oggetto di pratiche abortive nel grembo materno, o di trattamenti di laboratorio con fecondazioni in vitro e simili.

Che fare di tutti quegli embrioni mai nati? Che limbo mai li avrebbe potuti ospitare? Aprendo la strada della beatitudine a quegli individui, si voleva parlare a chi non li considerava tali: si ribadiva una definizione del concetto di vita che partiva dai primi istanti del concepimento e si faceva intravedere un paradiso più capiente. L’ennesima prova che il cielo parla sempre, e anzitutto, con la terra che sembra voler consolare.

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