Sotto la meraviglia, i cliché Avatar 3 puzza di naftalina

Delle due l’una: o siamo diventati un pubblico noiosamente choosey o è sempre e comunque sconsigliabile consumare prodotti congelati oltre la data di scadenza. Spoiler: James Cameron non conquisterà la casella mancante nel Guinness dei primati di sempre. Occupa il primo posto con Avatar (quasi tre miliardi di dollari), il terzo (Avatar: La via dell’acqua) e il quarto con Titanic (anche se, calcolando l’inflazione, Via col vento se li mangia tutti in un boccone). Se puntava a scippare ad Avengers: Endgame la medaglia d’argento, ha perso in partenza. Avatar: Fuoco e cenere (Avatar: Fire and Ash), terzo capitolo di un franchise che si sognava immortale, in Italia esce con The Walt Disney Company il 17 dicembre. E con Checco Zalone sugli schermi a Natale ricongiunto al suo Gennaro Nunziante (in più separato dal produttore della discordia, doppio guadagno) il pronostico è facile facile. Il Re Leone degli incassi da noi non sarà Made in Usa. Neanche in America e negli altri mercati tira aria buona. Il tour mondiale di promozione che sta impegnando Cameron & C. segnala allarme rosso. Con gli occhialini. Di nuovo Avatar: Fuoco e Cenere di fatto è stato girato – performance capture incluse – tra il 2017 e il 2020, in contemporanea col numero 2 del franchise. Poi è stato ibernato in attesa della postproduzione, che in questo caso “è” il film. Dallo stesso ceppo di riprese dovrebbe uscire Avatar 4, programmato per il 2029. Da utopia cameroniana, i nostri Natali di spettatori dovrebbero essere prenotati dai watussi blu di Pandora fino al 2031. Ma i miracoli hanno il fiato corto, specie se digitali. Choosey o no, lo spettatore ordinario in questo numero Tre annusa un vago olezzo di naftalina. Puoi cambiare co-sceneggiatori a ogni puntata (Cameron lo fa) ma quella è la zuppa. Perché non è che sembra, è proprio lo stesso film, quello che abbiamo visto nel 2022. Sempre con gli occhialini del 3D, che indossati per tre ore e un quarto sono una piaga, tanto più per chi è già occhialuto di suo e tanto più adesso che nessuno pontifica più sul 3D come cinema dell’avvenire. Però il primatista dei botteghini persevera. E milita anche sul fronte delle nuove insidie creative: occhialini forever, Ia mai, ha pubblicamente giurato. Addetto ai blockbuster dagli anni Ottanta, ha ipotecato il proprio futuro su Avatar. Anche perché gli mantiene non uno ma quattro mestieri: regista, co-produttore, co-sceneggiatore e co-montatore. Prenota per il 2026 il solito Oscar per gli effetti speciali. C’è sempre una fetta di pubblico che non pretende altro, e palpita per il cartellino col prezzo. Perché gli astronomici budget sono l’altro primato di Cameron. La via dell’acqua, coi suoi 350 milioni di dollari ufficiali più un altro centinaio abbondante stimato, era il film più costoso di sempre. «Il peggior modello di business della storia del cinema», ironizzava il regista, risultati finali alla mano. Ma non vale la regola del Gattopardo. Non è detto che tutto cambi perché tutto resti uguale. Crowe, Göring e Norimberga. La colpa è del film che non c’è Armarsi di buona memoria A giocare contro questo sequel c’è anche un problemino di memoria. A tanta distanza dall’ultima full immersion con gli occhialini (e a sedici anni dalla prima), non è complicato ricordarsi di Jake Sully (Sam Worthington, il marine disabile del primo Avatar naturalizzato Na’vi e divenuto capo insurrezionale del clan Omaticaya) o di sua moglie Neytiri (Zoe Saldana). Ma tutta la discendenza e le relazioni sociali sono un groviglio, e l’onomastica fantasy non aiuta. Il figlio maggiore dei Sully, Neteyam, è morto nel film precedente, alleggerendo il fardello. Restano però Lo’ak e Tuktirey (Tuk), più l’adottiva “magica” Kiri (Sigourney Weaver, che interpreta anche sua madre, la dottoressa Grace Augustine, che ha generato per partenogenesi e si è anche “deificata”), più l’orfanello umano Spider, figlio del defunto colonnello Miles Quaritch (Stephen Lang) che però è stato clonato in un corpo Na’vi e ha caricato su un hard drive i ricordi da militare. Ha sempre la mission di uccidere Sully. Chi si è perso gli appunti del 2022 ingrullisce. Dal film precedente sappiamo anche che Kate Winslet è la combattiva Ronan, moglie di Tonowari, capo del clan acquatico della barriera corallina Metkayina, dove i Sully in esilio hanno messo radici. Districarsi nel who’s who della società pandorese richiede duro e paziente lavoro. Chi è a digiuno del “prima” – se non altro per ragioni anagrafiche – dovrebbe evitare il cimento. Intendiamoci: La via dell’acqua era fantastico, soprattutto grazie ai Tulkul, i cetacei geneticamente modificati al computer che erano il cuore del film. Moby Dick tira sempre. Antimilitarismo, antimperialismo, ecologia, biodiversità spettacolarizzata: i kolossal di James Cameron sono l’apoteosi del politically correct, che oggi con l’aria che tira suona quasi dissidenza, radicalismo berniesandersiano. Ma non è che moltiplicando i pesci (i Tulkul) il prodotto cambia. Quei film che raccontano la violenza dopo la violenza Una catena di sfighe In barba al titolo, la vera action di Avatar 3 – lo scontro finale tra tecnologia letale e Natura aggredita – resta legata all’acqua. E si capisce, con quelle tonnellate di girato vecchio da smaltire a puntate. Il fire è solo l’elemento-guida di una nuova supercattiva, Varang (Oona Chaplin), capotribù del Popolo della Cenere (ash), che si mette in combutta col nemico giurato di Jake Sully, Quaritch. E tra villain se la intendono anche carnalmente, come Hollywood ci insegna da sempre. Perché il segreto dell’epica cameroniana è ammantare di meraviglia visiva i cliché. Arrivano i nostri come nei western classici ma cavalcano delfini alati con le squame, farfalle acquatiche, balenotteri emarginati, Tulkun che capiscono il linguaggio dei segni, «più intelligenti, più emotive, più spirituali degli esseri umani». La vera new entry digitale – quella da Oooh! e da trailer - è però la carovana dei Mercanti del Vento, con i suoi velieri volanti trainati da razze alate. Al cast stellare si aggregano questa volta anche Michelle Yeoh (che è una scienziata umana, perciò la riconosci) e David Thewlis (che è il leader del clan del Vento, ma è virato in blu e neanche la sua mamma lo distinguerebbe). Il Dracula di Besson svolazza tra i generi, ma il protagonista vale il biglietto Peccatucci veniali, tutti quelli citati, se la catena degli eventi non fosse una catena di sfighe. Il catalizzatore di guai stavolta è Spider, il ragazzino umano con le treccine rasta della famiglia allargata dei Sully. Che grazie e a un sortilegio di Kiri può finalmente respirare l’aria di Pandora senza l’armamentario filtrante necessario ai suoi simili. Quando però lo catturano, diventa una cavia umana. Se le armate occupanti riusciranno a isolare il gene strategico, gli umani conquisteranno il pianeta. Riassumo: indigeni accerchiati, un parentado variamente disperso o in conflitto, Neytiri che continua a piangere il figlio morto e un tirassegno da incubo contro un ammasso di simil-balene con prole. Dulcis in fundo, la citazione biblica di Abramo pronto a sacrificare Isacco, e non sto qui a spiegare come e perché. Anche il più classico evergreen natalizio “per tutta la famiglia” di sempre, La vita è meravigliosa, è una summa di sfighe. Ma almeno nessuno sfracella cetacei. Non invidio le mamme e i papà all’uscita dal film. Più dei popcorn serviranno i kleenex. E la pazienza di consolare la prole spiegando che quelli – davvero – non sono animali reali.